Ricorrendo quest’anno – l’8 dicembre – il 50º della chiusura del Concilio Vaticano II, mi è stato giustamente suggerito di prendere come tema del mio ormai consueto contributo a questa rivista, la Costituzione conciliare sul mondo contemporaneo, vale a dire la Gaudium et Spes. Non presumo di poter offrire un approfondimento teologico-pastorale – per il quale certo mi sento inadeguata – ma, quale testimone di questi cinquant’anni di storia della Chiesa, posso umilmente fare una rilettura personale, quindi “monastica”, di questo stupendo documento, cercando di esprimere almeno in parte ciò che esso suscita nel mio cuore, soprattutto in riferimento al servizio di guida spirituale che ormai da molto tempo mi trovo a svolgere. Proprio questo servizio mi mette a contatto diretto con l’uomo contemporaneo nella sua realtà esistenziale fatta di gioie e speranze, tristezze e angosce.
Il documento si presenta quasi come una “lettera aperta” della Chiesa al mondo, dialogando a cuore a cuore su temi tanto importanti e gravi quali la vocazione dell’uomo, il bene comune, la cultura, la famiglia, la pace, il lavoro, il combattimento spirituale, la libertà… Ma prima di addentrarsi nei singoli argomenti, suggerisce di considerare quale sia la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo. Possiamo quindi chiederci: com’è l’uomo di oggi cui era ed è ancora rivolto il documento conciliare? Cinquant’anni di storia quali mutamenti hanno portato nella concezione che l’uomo ha di se stesso, nelle sue scelte fondamentali, nel suo rapporto con Dio, con il prossimo, con il creato?
«Ai nostri giorni – leggiamo al n. 3 della Gaudium et Spes – l’umanità, presa d’ammirazione per le proprie scoperte e la propria potenza» – che sono espressione della sua dignità unica di essere creato ad immagine e somiglianza di Dio – «agita però spesso ansiose questioni… sul posto e sul compito dell’uomo nell’universo», un posto e un compito sempre più pensati e vissuti non come umile e gioioso servizio e come espressione di una filiale e intelligente cooperazione al disegno salvifico di Dio, ma piuttosto come dominio autonomo, come libertà assoluta, quasi intollerante della propria realtà di creatura dipendente dal Creatore.
Ne è conseguita una visione tecnica e scientifica dell’esistenza umana a scapito della sua dimensione spirituale e soprannaturale. Infatti è in atto un processo che manifesta risvolti ogni giorno più drammatici, in un vertiginoso susseguirsi di scoperte e di audaci sperimentazioni, che nulla hanno più a che vedere con un autentico progresso, ma che diventano violazioni dell’uomo stesso perché manipolato e spinto su strade che sembrano di conquista e in realtà sono vicoli ciechi. Cinquant’anni dopo ci pare di dover innanzitutto costatare che l’umanità non appare più, in larga misura, presa d’ammirazione per le proprie scoperte e la propria potenza, ma piuttosto condizionata e quasi impaurita per le conseguenze di ciò che sperimenta. Appare infatti chiaramente che il progresso tecnico può diventare una minaccia per l’uomo e per il mondo intero.
Come ha lucidamente richiamato Papa Benedetto XVI in tutto il suo magistero, e in modo particolare nell’Enciclica Caritas in veritate (cf. nn. 68-77), tale processo e rischio non riguarda solo il singolo individuo nella sua scelta tra il bene e il male, ma coinvolge l’intera umanità e trascina con sé anche tutto il creato, rendendo attualissimo quel drammatico scontro tra carne e Spirito descritto da san Paolo nella Lettera ai Romani. «Lo sviluppo della persona – si legge nell’Enciclica – si degrada se essa pretende di essere l’unica produttrice di se stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai “prodigi” della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche». Senza arrestarsi alla constatazione del dato negativo, subito il Papa indica anche la via della rinascita: «Davanti a questa pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente umana dal riconoscimento del bene che la precede. Occorre, a tal fine, che l’uomo rientri in se stesso per riconoscere le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha inscritto nel suo cuore» (n. 68).
Anch’io posso affermare che, in questi ultimi cinquant’anni, ho visto bussare anche alla porta del monastero un uomo interiormente “frammentato”, lacerato, in lotta contro Dio, contro gli altri, contro la vita stessa; un uomo che presenta i tratti ora di un Giobbe contemporaneo che grida tutto il suo dolore e la sua ribellione; ora tragicamente consapevole del proprio peccato, perciò con il cuore contrito, come un nuovo Davide. Comunque sempre più frequentemente mi pare di incontrare un uomo disilluso e stanco, un uomo dalla speranza spenta che sembra non amare più la vita, non coglierla come un dono nuovo e stupendo ogni mattina, ma piuttosto come un peso e una fatica senza senso, come «vanità delle vanità» (cf. Qo 1,2.8).
Pur vivendo in monastero e su un’isola disabitata, sono innumerevoli le persone che vi giungono quasi per caso, come naufraghi sbattuti dalle onde tempestose della storia… Esse chiedono un continuo “pronto soccorso” che possiamo offrire sia con la preghiera sia con l’ascolto e la parola di consiglio e di conforto. La casa di Dio, quale si definisce il monastero, deve essere ospitale per tutti, senza distinzione, sia in modo diretto e visibile attraverso l’accoglienza, sia, e ancor più in modo segreto, nel cuore orante, ossia attraverso una vita di offerta nel silenzio e nella preghiera, nel lavoro e nella comunione, sentendosi, come dice la Gaudium et Spes, realmente e intimamente solidali con il genere umano e con la sua storia.
A noi che viviamo fisicamente separate dal mondo, ma per tutti i fratelli, è richiesto di testimoniare con la nostra vita il primato di Dio, l’amore appassionato a Cristo, consapevoli che, come continuamente ripete Papa Francesco, solo se gli uomini si incontrano con Gesù e «si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento». Con Gesù Cristo, infatti, sempre l’uomo si rinnova e ritrova la gioia e la speranza.