Per fare un favore ad un amico firmò un avallo di mille ducati. L'amico fallì e Felice non solo andò sotto processo, ma perdette il lavoro e dovette vendere tutti suoi averi, compresa la casa. Andò ad abitare appunto in una stalla, esattamente mentre la moglie stava per dare alla luce Giuseppe. Poco dopo Felice morì di dispiacere e nessuno pensò di aiutare la vedova, anzi le rinfacciavano l'ingenuità del marito.
D'altra parte in quel periodo tutti avevano i loro guai, perché la miseria era grande in tutto il Salentino. Gli stessi comuni, indebitati fino al collo, vendevano il demanio ai pochi ricchi del posto e ad altri che venivano dalla lontana Genova. I poveri contadini erano tormentati da tasse a non finire e dovevano pagare "balzelli persino sulla paglia, sul nocciolo delle olive dopo la molitura, sull'acqua piovana, ed erano soliti esigere grana cinque per ogni albero a causa dell'ombra che gettava sulla terra». Furono anni durissimi per la vedova e per i figli.
L'unico modo per sfuggire a tanta sventura era diventare prete o frate. Diventar prete era cosa difficile, perché il giovane nulla sapeva di lettere, fare il frate forse era possibile, perché gli bastavano le braccia e la volontà per lavorare sodo. L'idea non dispiaceva a Giuseppe e anche la buona madre era dello stesso parere.
Ma tutti lo scartavano, non avevano stima. Non ancora raggiunti i 17 anni, quando lasciò la sua mamma e si diresse al convento dei Conventuali, dove un suo zio era stato guardiano, ma dopo un periodo di prova fu mandato via «per la sua poca letteratura, per semplicità ed ignoranza». Passò allora dai Francescani riformati, ma anche questi dopo poco tempo lo rifiutarono. Bussò alla porta dei cappuccini, allora meno esigenti in fatto di cultura, ma anche qui gli andò male. Questi non lo vollero e dopo otto mesi di prova lo spedirono a casa «perché non era idoneo et abile alle fatiche solite a farsi tra i cappuccini».
Per sfuggire alla condanna del tribunale Giuseppe si dirige di nuovo alla Grottella, il convento a due passi da Copertino, ed espone il suo caso al frate sagrestano. Questi lo alloggia in una soffitta, dove di notte studia, mentre di giorno aiuta nei lavori più pesanti del convento. I frati prendono a cuore il suo caso e lo ammettono nella comunità, prima come oblato, poi come terziario e finalmente come fratello laico. Era l'anno 1625 e Giuseppe ne aveva 22.
Tu lo Spirito sei et io la tromba
Il 19 giugno di quell'anno inizia il noviziato e quasi subito è ammesso agli studi teologici e tre anni dopo viene ordinato sacerdote. Cosa sia avvenuto in quel periodo nella mente di questo giovane è stato sempre difficile dirlo. Certamente non era un boccaperta se il suo sapere lasciava a bocca aperta personalità come il padre Andrea Padovani del Collegio universitario di San Bonaventura di Roma che testimoniava: «L'ho sentito parlare così profondamente dei misteri di teologia, che non lo potrebbero fare i migliori teologi del mondo».
Sapeva anche mettere la scienza teologica al giusto posto. Alla richiesta di Bonaventura Mastrio, chiamato in quel tempo «il principe degli scotisti», su come conciliare gli studi con la semplicità del francescanesimo, rispose: «Quando ti metti a studiare o a scrivere ripeti: “Signor, tu lo spirito sei / et io la tromba. / Ma senza il fiato tuo / nulla rimbomba”».
Fra’ Giuseppe come sacerdote e missionario dimostrò molto buon senso e fine intelligenza pratica, ma soprattutto un amore particolare alla povera gente. Non solo predicava ai poveri e li aiutava in tutti modi, ma sapeva alzare la voce anche contro gli abusi dei potenti e operare persino conversioni in mezzo a loro. Ai compiti propri del sacerdote sapeva unire anche i lavori manuali, aiutando il cuoco, facendo le pulizie del convento, coltivando l'orto e uscendo umilmente a far la questua. Amabile ed esemplare, particolarmente sapiente nel dare consigli, era ricercato dentro e fuori del suo Ordine. Il provinciale volle che visitasse tutte le loro case – erano circa cinquanta – per ravvivare la vita evangelica nelle comunità.
La luce che lo rapiva in volo
Forse sarebbe vissuto sempre in pace, se ad un certo momento non si fossero verificati in lui dei fenomeni, a dir poco, fuori del normale. Non era raro, infatti, che fra’ Giuseppe andasse in estasi. Egli stesso ci racconta qualcosa con un linguaggio pieno di immagini: «Chi va in estasi è come uno che si butta in mare nuotando (sott'acqua). Egli vede le cose che sono nel profondo del mare, né si ricorda della terra. Ma gli altri che sono presenti, non vedono che i movimenti di colui che sta nell'acqua, non arrivando a vedere quello che egli vede nel vasto mare. Così avviene nell'estasi, perché l'anima si congiunge ed entra nel mare magnum del sommo Dio e vede quello che non si puole né anco raccontare, sì bene intendere si passa. Ma chi sta dove uno va in estasi, non puole altro considerare che la positura del corpo».
Se le cose fossero rimaste a questo livello, fra’ Giuseppe non avrebbe avuto tante noie, ma la sua vita si complicò enormemente perché quando meno se lo aspettava, mentre celebrava o predicava, dentro la chiesa o sulla pubblica piazza, egli – senza volerlo – emetteva un forte grido e si sollevava da terra fino a toccare la volta del tetto e vi restava per alcuni minuti lasciando tutti col fiato sospeso. Ritornava al normale appena l'estasi era finita o perché il superiore glielo ordinava per santa obbedienza.
Qualcuno volle prenderlo in trappola chiedendogli: «Dite, padre Copertino, vi accorgete di quanto accade intorno a voi quando siete in estasi?». E il santo: «Niente sento quando me ne sto così unitamente stretto a Dio». «Come mai allora – ribattè l'altro – alla parola obbedienza vi risvegliate prontamente?». «Nemmeno queste parole allora sento – rispose fra Giuseppe – quando mi vengono simili cose, ma Iddio, che è sommo amatore dell'obbedienza, al nominarla solamente, fa sparire la visione che tiene occupata l'anima, la quale disoccupata torna alle sue potenze e sentimenti del corpo».
Questa la spiegazione che dava ai suoi superiori, mentre con gli altri cercava di minimizzare. Così ad Assisi nell’agosto del 1644, mentre gli veniva consegnato il diploma di cittadino onorario dai deputati della città, uno di questi, vedendolo come assente, gli chiese se non era contento di essere fatto concittadino di san Francesco. Egli rispose subito di sì, ma nello stesso istante si sollevò da terra fino a toccare il soffitto della sala, rimanendovi per alcuni minuti tra lo stupore dei presenti. Quando scese a terra, restando ancora in estasi ripeteva: «Sicut cor tuum! Sicut cor tuum!». Vedendo poi i volti sbalorditi dei presenti, si scusò dicendo: «Compatitemi, di grazia, ché son difetti di natura».
Gli studiosi oggi stanno indagando se furono di natura parapsicologica o di natura mistica. Il fatto, innegabile a parere degli storici, è che essi sono avvenuti.
La via crucis per entrare in cielo
Al suo tempo, però, le cose non andarono così liscie. Intervennero i superiori e intervenne anche il Santo Ufficio. Il povero fraticello fu sottoposto a continui interrogatori e processato dal tribunale inquisitoriale di Napoli. Ne uscì indenne, ma gli fu proibito di tornare a Copertino. Fu sballottato da un convento all'altro, poi fu mandato a Roma, quindi ad Assisi, a Pietrarubbia, a Fossombrone e infine a Osimo nelle Marche.
Il 17 settembre 1663, festa delle stimmate di san Francesco, ricevette l’Eucaristia e pregò in maniera speciale per il papa e per la chiesa, poi col suo consueto umorismo comunicò ai frati: «L’asinello è arrivato alla cima del monte tutto stracco e deve farglisi la pelle». La notte del giorno seguente il fraticello, che aveva edificato tutti con la sua santità e sbalordito tanti con le sue levitazioni, spiccò l'ultimo volo, questa volta senza ritorno.