Lewis è credente, ma questo non attenua il dolore, anzi lo rende ancora più straziante: se all’origine della vita c’è un Dio che è amore e può tutto perché allora facciamo esperienza del dolore, della malattia, della morte, della separazione e del distacco? Questi interrogativi suscitano indignazione e rabbia, cui lo scrittore dà voce con onestà e schiettezza: «E intanto dov’è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue richieste come un’interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si prova) a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all’interno. Poi, il silenzio. Più aspetti, più il silenzio ingigantisce. Non ci sono luci alle finestre. Potrebbe essere una casa vuota. È mai stata abitata? Un tempo, lo sembrava. Ed era una impressione altrettanto forte di quella di adesso. Che cosa significa? Perché il Suo imperio è così presente nella prosperità, e il Suo soccorso così totalmente assente nella tribolazione? Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché è assente, perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo?».
Sono riflessioni che esprimono un’esperienza comune del credente. Esse possono essere accostate al passo evangelico che riporta la supplica straziante della donna cananea a Gesù, una supplica che sembra rimanere del tutto inascoltata: «Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,23).
Dare espressione alla propria rabbia, senza finzioni, né censure, anche di fronte a Dio, è un aspetto irrinunciabile del lutto. La Bibbia non censura la rabbia del credente anzi invita espressamente a darvi voce, come ad esempio nelle composizioni note come «salmi imprecatori», i quali tuttavia, significativamente, sono stati rimossi dalla liturgia delle ore, o ampiamente tagliati. È un segno della difficoltà della nostra cultura a unire rabbia e preghiera, lode e aggressività, finendo per considerarle inconciliabili. E invece sono una forma alta di preghiera capace di trasformare la rabbia e farne l’oggetto della propria relazione con Dio: «Sono estremamente esigenti i salmi imprecatori perché sanciscono il principio per cui anche di fronte all’ingiustizia e al male subìti ci si priva di farsi giustizia da sé, non si cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma si lascia fare alla giustizia di Dio» (E. Bianchi). Per questo, più che “imprecatori” sarebbe più corretto chiamarli salmi di supplica e di ascesi, di purificazione delle proprie emozioni distruttive.
Di fronte alla rabbia dell’altro istintivamente ci si ritrae spaventati, eppure questo è un passaggio indispensabile per tornare a vivere; è una forma di verità con se stessi e la propria situazione di sofferenza, una richiesta di senso animata dalla speranza e che, qualora venisse censurata, potrebbe portare a derive distruttive, verso di sé o verso altri.
Portando a parola la propria rabbia, Lewis non si nasconde la gravità delle sue implicazioni. Essa gli prospetta l’eventualità di un Dio inesistente o, peggio, sadico e maligno; insieme a questo, altri interrogativi fanno comunque capolino nella sua mente, e lo spingono ad affrontare la sfida della complessità.