Alcuni esempi letterari
Questi tentativi di prendere le distanze dalla propria morte sono ben evidenziati letterariamente dal romanzo di L. Tolstòj, La morte di Ivàn Il’íč: il protagonista, nel corso della malattia, si vede progressivamente restringere i propri spazi vitali, avvertendo insieme al dolore una inesorabile separazione dal mondo dei vivi, i cui incontri sono sempre all’insegna della banalità e della chiacchiera rilevate da Heidegger. L’unico personaggio veramente presente è la morte, che con il passare del tempo occupa sempre più ambienti della dimora del malato, in senso fisico come spirituale, fino a rivelarsi il vero padrone di casa. Lo stesso Ivàn riconosce che, fino a quel momento, era stato come loro, aveva avuto notizia della morte, ma appunto della morte degli altri: «Quell’esempio di sillogismo che aveva imparato nel trattato di logica: Caio è un uomo – gli uomini sono mortali, quindi Caio è mortale – gli era parso, in tutta la sua vita, giusto solo nei riguardi di Caio, ma mai nei riguardi suoi. Caio era un uomo, l’uomo in genere, e il sillogismo era perfettamente giusto: ma egli non era Caio, né l’uomo in genere; egli era Vania».
Per questo, come si vedrà, il lavoro del lutto è indispensabile per imparare la saggezza di vivere, perché la morte parla alla vita e può insegnare a vivere bene: «Elaborare un lutto significa necessariamente acquisire una qualche forma di saggezza. L’esperienza della morte ha molteplici aspetti legati alla vita, dal momento che ogni processo di crescita comporta appunto l’elaborazione della perdita non solo delle figure che sono state essenziali per noi nei momenti precedenti, ma anche dell’immagine che essi si erano fatta di noi» (E. Perrella).
Dunque anche la morte si vive e agisce sui vivi, trasformandoli. È il senso del celebre verso di J. Donne, posto da E. Hemingway a esergo del suo romanzo Addio alle armi: «Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità: e così non mandare mai a chiedere per chi suona una campana: essa suona per te».
Tale sapere nasce anzitutto dall’esperienza della morte altrui. Essa però, se riguarda una persona conosciuta, non è l’anonimo «Caio muore», ma rivela che l’uomo è un essere in comunione, quella comunione che la morte viene a spezzare: «Con l’orrore del silenzio degli assenti che non rispondono più, la morte dell’altro penetra in me come una lesione del nostro essere comune. La morte mi “tocca”» (P. Ricœur). Questo legame spezzato è ancora più crudele nel caso della morte di una persona amata. È l’esperienza descritta magnificamente dal giovane Agostino ricordando la dipartita improvvisa dell’amico: «Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia città, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformato in uno strazio immane. I miei occhi lo incontravano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo». Ma, soprattutto, ciò che aveva espresso di sé con lui, Agostino non potrà più condividerlo con nessun altro, quella parte è scesa anch’essa nella tomba: «Bene fu definito da un tale il suo amico la metà dell’anima sua. Io sentii che la mia anima e la sua erano state un’anima sola in due corpi; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a mezzo, e perciò forse temevo di morire, per non fare morire del tutto chi avevo molto amato».