La grande rinomanza di questo tema corre parallela alla sua sostanziale censura nella vita ordinaria. Tale rimozione è una peculiarità propria della cultura occidentale: a partire dalla rivoluzione industriale il tema della morte viene posto in «quarantena», in una sorta di limbo, anche se in tal modo essa, come ogni realtà repressa, fa sentire in modo ancora più inquietante la propria suggestione: «La morte di un tempo era una tragedia — spesso comica — in cui si recitava la parte del moribondo. La morte di oggi è una commedia — sempre drammatica — in cui si recita la parte di quello che non sa d’esser vicino a morire» (Ph. Ariès).
L’oblio della morte rimane comunque una tentazione costante del pensiero occidentale. Il filosofo Epicuro la ritiene antitetica alla vita, dal momento che ne può parlare solo chi morto non è, e liquida il problema con una frase divenuta celebre: «Quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più». Ma l’autore che ha analizzato nella maniera più riuscita il tentativo odierno di cancellare il confronto personale con la morte è M. Heidegger. Nella sua opera Essere e tempo egli si sofferma a lungo sulla «chiacchiera», espressione tipica dell’esistenza vuota, che affronta superficialmente problematiche gravi e inevitabili, come appunto la morte: «La morte è concepita come qualcosa di indeterminato, che certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il “si muore” diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. Si sottende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno».
Sul versante della psicanalisi Freud non si esprime in termini diversi rievocando le stragi immani e purtroppo quotidiane della grande guerra, che avevano trasformato la morte in una sorta di abitudine, di routine quotidiana. Egli nota in particolare come si possa certamente parlare della morte, ma sempre della morte degli altri, una morte divenuta uno spettacolo a cui si assiste, ma che non ci riguarda. Per Freud ciò ha un motivo prettamente psicanalitico: ci si difende dall’angoscia che il pensiero della propria morte suscita, rimuovendola, perché l’inconscio non conosce il tempo, in particolare non conosce il termine della propria esperienza di vita. Esso si trova posto strutturalmente al di fuori del proprio campo di pensiero e di immaginazione: «Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere ancora presenti come spettatori. Non c’è nessuno che in fondo crede nella propria morte, o, ciò che equivale, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità».
Il tentativo più rigoroso di giustificare la rimozione della morte è stato operato dalla filosofia idealista. Essa concepisce il singolo essere come indistinguibile dalla totalità: morire significa dissolversi in essa per continuare a vivere sotto altra forma. Il rappresentante più eloquente e controverso di questo pensiero in Italia è stato Benedetto Croce; egli avverte tuttavia che qualcosa sfugge a questa identificazione, rimane una opposizione irriducibile tra la singolarità dell’essere umano e il Tutto dello Spirito. Questa disparità si palesa proprio nella morte: di fronte a essa l’uomo deve stoicamente rassegnarsi, la sua identità personale scompare, mentre la sua opera rimane per sempre.