Proseguendo nel suo insegnamento, Gesù rivela che una sola cosa è importante per il Signore: che nessuno si perda, nessuno smarrisca la via, nessuno sia escluso. E così deve essere anche nella comunità cristiana. Per questo occorre evitare gli scandali, vincere il male con il bene, alla vendetta sostituire il perdono, usare con tutti e sempre quella benevolenza che allontana i contrasti e genera una vera concordia. La via che rende possibile e stabile la comunione fraterna è la preghiera fatta insieme, concorde, perché, dice Gesù, «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (v. 20).
Sentendo tale esigente discorso, Pietro non può trattenere una domanda: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). E pensa di aver già detto un’enormità, di aver superato ogni ragionevole tolleranza. Gesù, però, gli risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (v. 22), ossia sempre, senza stancarsi mai, con una pazienza che non conosce limiti.
E subito Gesù narra la parabola del «servo spietato», paradossale come quasi tutte le parabole, ma anche molto concreta, con facili riscontri nelle vicende della vita quotidiana segnata da tanti imprevisti, con i debiti da saldare, con i conti da far tornare, ma soprattutto con i suoi radicati egoismi, le sue pretese, le sue incongruenze, le sue ostinate chiusure.
Un re – così comincia la parabola – volle regolare i conti con i suoi servi… Dovevano essere certo molti, ma la parabola si ferma su uno solo. Tutti sono rappresentati in quell’unico, nel quale noi pure dobbiamo riconoscerci. Egli – noi stessi – ha contratto con il suo padrone un debito enorme, assolutamente insolvibile. Non avendo di che pagare, non cercò scuse, ma, pieno di paura, si gettò ai piedi del re e lo supplica chiedendo una proroga. Volgendo lo sguardo su di lui, ascoltando la sua supplica, il re ne ebbe compassione, si lasciò toccare il cuore e condonò il debito.
Libero dal peso che lo schiacciava, il servo si rimise in cammino. Ed ecco, la svolta inconcepibile della parabola. Lungo la strada incontrò un compagno di servitù, uno come lui, più misero di lui, al punto che gli aveva dovuto chiedere un piccolo prestito, forse il denaro necessario per comprare il pane quotidiano. Vedendolo, il servo graziato pretese l’immediata restituzione della piccola somma. Il servo debitore si inginocchiò e supplicò di aver pazienza con lui, ma invano. Non incontrò compassione, ma durezza. Consegnato alla giustizia, venne gettato in prigione.
I compagni di servitù, che avevano assistito allibiti alla scena, si sdegnarono. Come è possibile una tale durezza, quando si è appena ricevuto un condono immenso?
Anche il re Davide si era sdegnato e adirato ascoltando il racconto dell’unica «pecorella piccina» sottratta da un uomo potente ad un uomo povero, finché il profeta Natan gli disse: «Tu sei quell’uomo», tu che hai “rubato” la moglie al tuo servo fedele (cf. “Sam 12,1-7).
Sì, forse siamo proprio noi quei servi che, graziati da Dio di un debito enorme, non sappiamo condonare ai fratelli delle inezie e ci leghiamo al dito offese da nulla, chiudendo loro il nostro cuore, escludendoli.
Purtroppo è istintivo nell’uomo pretendere tutto per sé e non saper donare. È la lotta perenne tra l’uomo vecchio, ferito dal peccato, e l’uomo nuovo rinnovato dalla grazia; è il combattimento spirituale sempre in atto tra l’«io» e il «tu». Il servo della parabola, pur liberato esteriormente dal suo debito, era ancora interiormente schiavo delle sue passioni: aveva accolto il «con-dono» del debito materiale, ma non il vero dono, l’amore che, solo, libera il cuore dall’egoismo e lo apre agli altri. Un giovane monaco narra che un giorno, con altri confratelli, era andato a far visita ad un anziano eremita del deserto per chiedergli consigli spirituali: «Mi sedevo in rispettosa ammirazione, mentre egli rispondeva alle nostre domande. Ma quella volta mi sentivo così a mio agio che mi ritrovai ad alzare la mano: “Padre, parlaci di te stesso”. “Di me stesso?”, fu la risposta. E dopo una lunga pausa: “Il mio nome era io, ma ora è tu”» (Teofane il monaco, Fiabe del deserto magico, Gribaudi, p. 18).
Ecco bisognerebbe tutti giungere a questo punto, cioè non vivere più per se stessi, ma farsi dono per gli altri. È il cammino della conversione.
Il re della parabola, venuto a sapere quanto era accaduto, ne fu molto rattristato; chiamato il servo gli disse: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (v. 33). E così dicendo lo consegnò agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Se la parabola terminasse qui, sarebbe il racconto dell’amore sconfitto. Ma non termina qui. Il Re – che è Dio stesso – non si arrende e trova sempre nuove vie per ferire il cuore indurito dell’uomo, fino a giungere all’inverosimile. Dopo avere in molti modi nei tempi antichi manifestato il suo amore, con il dono della Legge, con i suoi profeti, con i suoi interventi salvifici, ecco che, giunta la pienezza dei tempi, nella sua immensa, esagerata carità (cf. Ef ), mandò sulla terra il suo stesso Figlio «per salvare ciò che era perduto». «Dio Padre – scrive san Bernardo – ha inviato sulla terra un sacco, per così dire, pieno della sua misericordia; un sacco certo piccolo, ma pieno, se ci è stato dato un Bambino in cui però “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2, 9)». Lo ha mandato Bambino, perché il cuore dell’uomo si commuovesse. Venne nella debolezza della carne per rivelarsi a noi che siamo deboli e fragili. «Nulla mostra maggiormente la sua misericordia che l’aver egli assunto la nostra stessa miseria». Ma questo «sacco fu strappato a pezzi durante la Passione, perché ne uscisse il prezzo che chiudeva in sé il nostro riscatto».
Noi adesso abbiamo questa preziosa eredità: la misericordia che scaturisce dal cuore di Cristo, da scambiarci vicendevolmente. Rigenerati in Cristo nel Battesimo, siamo diventati di natura divina, perciò siamo in grado di usare misericordia, siamo in grado di perdonare con tutto il cuore. Il perdono, infatti, deve esprimere un amore in grado superlativo, un amore gratuito, senza condizioni e senza restrizioni.
Gesù Crocifisso è il prezzo della nostra salvezza. Guardando a Lui, come possiamo tenere aperto un conto dei debiti altrui verso di noi? Il perdono ricevuto è un seme che, gettato nel nostro cuore, può e deve dare molto frutto, una messe abbondante. Chi perdona non va in fallimento a causa del fatto che non riceve quello che gli spetta. No! È un vittorioso perché supera l’egoismo e così guadagna il fratello. Solo la misericordia è in grado di sciogliere le catene del male. Un detto rabbinico dice: «I peccati dell’uomo contro Dio saranno perdonati nel giorno dell’espiazione, ma i peccati dell’uomo contro il suo prossimo non saranno perdonati, fino a quando un uomo chieda e ottenga il perdono». È quello che ha fatto Gesù in Croce per tutti noi: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Egli ci ha dato l’esempio. E molto di più: ci ha dato il suo Spirito d’amore, perché «come ha fatto lui facciamo anche noi», perdonando di tutto cuore, sempre.
O Dio, Padre buono,
noi non sappiamo valutare
il debito di gratitudine
che abbiamo verso di Te:
debito di gratitudine per la vita
e per il dono del tuo amore infinito.
Preserva i nostri cuori
da ogni forma di egoismo
e di intransigenza verso gli altri.
Donaci uno spirito umile e mite
che sappia perdonare ogni offesa
con magnanimità e pazienza
e che sempre sappia rendere grazie a Te
che hai cancellato
con il sangue del tuo Figlio
il debito incalcolabile
del nostro peccato
e della nostra indifferenza.
Padre buono,
fa’ di noi, nel Figlio che ci doni,
tuoi figli di cui tu possa compiacerti,
vedendoci vivere insieme da fratelli.
Amen.