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Sabato, 08 Novembre 2014 11:18

Angeli, elevate un canto

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Inno liturgico del Rito ambrosiano

di Tarcisio Stramare

Tra le composizioni poetiche riguardanti San Giuseppe merita di essere presentato un inno del Rito Ambrosiano, assegnato al diciannove marzo. L'autore è incerto. Ogni informazione in proposito ci sarà gradita, come pure su altri lesti ambrosiani riguardanti San Giuseppe. Cogliamo qui l'occasione per ricordare come sant'Ambrogio si sia distinto nel difendere la «verità» del matrimonio di Maria con Giuseppe in base al diritto romano, per il quale «non la perdita della verginità costituisce il matrimonio, ma il patto coniugale».

 

Il nostro poeta si rivolge direttamente agli angeli per la composizione di questo carme. Chi meglio di loro conosce San Giuseppe, essendo stati in più occasioni i messaggeri degli ordini del Padre? L'evangelista Matteo elenca il compimento di questo loro ufficio in diverse occasioni: per confermargli l'origine divina della maternità di Maria e rivelargli la sua vocazione divina «a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità» {Mt 1,20.21.24; cf. Redemptoris Custos, 8); inoltre, per ordinargli di porre in salvo Gesù dalle insidie di Erode fuggendo in Egitto (2,13); infine, per avvertirlo della morte di Erode e della conseguente disposizione di andare nella terra d'Israele (vv. 19-20). Da parte sua, Giuseppe ne ha sempre rispettato la funzione, eseguendo prontamente i loro ordini, come è ricordato nella descrizione della fuga in Egitto: «Angelo paret manenti» (obbedisce all'ordine dell'angelo). Come sarebbe diverso anche per noi, se ascoltassimo sempre la voce del nostro angelo custode!
La seconda strofa mette in risalto la grandezza di Maria: la sua dignità di «regina del cielo» le deriva dal fatto di essere piena di Spirito Santo e adornata con la luce del sole, chiari riferimenti alla sua maternità divina. Tale grandezza di Maria si riverbera su quella di Giuseppe dal momento che ella è unita in matrimonio «immacolata Vergine ad un Vergine (iungitur Intacta Virgo Virgini)». Il titolo di «vergine» è esplicitamente riconosciuto a San Giuseppe come requisito connaturale della sua dignità di «sposo di Maria» . Siamo ben lontani dai «deliri degli apocrifi», che ne avevano fatto un anziano vedovo!
Descrivendo la nascita di Gesù, l'autore sottolinea fortemente la divinità del bambino («divinus Infans», «Verbum»), ma non toglie a Giuseppe il titolo di «Padre (Parens)», che esercita la sua paternità portando fra le sue braccia, immobilizzato (coercitum) dalle fasce, il «Verbum». Quale contrasto! Nel Vangelo di Giovanni la potenza creatrice del Verbo si dissolve nella «carne» (1,14); qui «la Parola (Verbum)» è solo un «vagire», e colui che è la gioia (rìsus) del Cielo, è visto «piangere (flere)».
Nell'episodio evangelico della fuga in Egitto, Giuseppe assolve l'importante compito di «salvare Dio (servare Numen)». All'ordine dell'angelo segue una veloce fuga, dimostrazione dell'obbedienza di Giuseppe. Viene fatto, tuttavia, notare che dietro l'apparenza della debolezza di Dio c'è la realizzazione di un progetto salvifico: illuminare le tenebre dell'Egitto.
Nella sua veste di «Padre nutrizio di Dio», Giuseppe, discendente da sangue di re, educa su questa terra la regale Prole del Padre celeste. Anche se la genealogia davidica nobilita Giuseppe, è la sua elevazione divina a «Padre nutrizio di Dio» che lo abilita ad «educare» il Figlio del Sommo Padre, compito che egli assolse «con gioioso impegno» (cf. Redemptoris Custos 1). Abbiamo già incontrato in altri Inni il titolo di «educatore» attribuito a san Giuseppe, titolo che non può essere disgiunto da quello della sua «paternità», la quale per essere vera deve essere «educativa».
Tre aggettivi qualificano Gesù in relazione alla paternità di Giuseppe durante il periodo della vita a Nazaret: perduto (amissus), ritrovato (repertus), obbediente (subditus). Si tratta di un figlio (puer) veramente singolare. Egli non può essere «posseduto», perché in un certo modo è sempre «perduto» per i suoi «genitori» terreni, a motivo della sua appartenenza esclusiva al Padre; e tuttavia è la gioia di suo padre (gaudium paternum), tanto più da lui goduto quanto più consapevole che è suo solo per amore questo Bambino che si è lasciato ritrovare (repertus). Che dire ancora di questo Figlio obbediente (subditus), che allevia amorosamente la fatica del padre? Il commento della Redemptoris Custos è puntuale: «Questa “sottomissione”, cioè l'obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe» (22).
Giunge, infine, il momento della morte, che Giuseppe affronta «lieto» assistito dal Figlio e dalla Sposa. Poiché la vita è presente in Gesù, Giuseppe può guardare con distacco la morte. Che cosa gli può fare? Il popolo cristiano, che lo ha percepito istintivamente, si rivolge a San Giuseppe in quel momento supremo. Di qui il fiducioso ricorso al Santo perché voglia soccorrerci. Se va superata la figura del corpo, considerato dal nostro innografo come un carcere dal quale occorre liberarsi, rimane tuttavia valida quella delle catene eterne, che esprime il castigo dell'inferno. La dossologia finale non ha bisogno di commento. 
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