Milano era ancora in un’epoca di sostanziale tenuta della pratica cristiana, ma il neo arcivescovo comprese subito la «materiale presenza dei cristiani a fronte di una loro spirituale assenza», come scriveva lui stesso chiamando la metropoli la città del “time is money” (il tempo è denaro). Vedeva quindi una Chiesa «che non deve seguire, ma guidare e precedere il progresso», perché «il cristianesimo deve attingere alle sue genuine fonti, non sostituendo una piccola religione alla grande».
Da Roma, nel piovoso 6 gennaio 1955, giorno del suo ingresso in diocesi, aveva portato un vagone con novanta casse di libri. Era stato sostituto alla Segreteria di Stato vaticana e poi diplomatico per trent’anni in Vaticano, con una brevissima parentesi al seguito del nunzio monsignor Lorenzo Lauri in Polonia: un puro intellettuale? I fatti avrebbero dimostrato il suo forte senso pastorale.
«Non nova, sed nove»: a Milano non servono cose nuove, ma un “modo nuovo”, aveva dichiarato sedendo sulla cattedra ambrosiana e nel suo primo discorso aveva chiara la sua identità: «Apostolo e vescovo io sono; pastore e padre, maestro e ministro del Vangelo; non altra è la mia funzione tra voi». Un gesto inusuale per quei tempi, che poi ripeterà nei suoi viaggi apostolici da Papa, segnerà l’impronta del suo ministero: si china a baciare la terra del suo apostolato, quasi a esprimere un legame inscindibile con essa.
L’uomo moderno: che è «un disorbitato, perché ha perso il suo vero orientamento, che consiste nel guardare verso il cielo, è simile a colui che è uscito di casa, e ha perduto la chiave per rientrarvi; insomma è un gigante cieco»: invitava quindi una città dinamica e operosa a «pensare Dio», anche nelle attività concrete.
Negli anni del suo episcopato ambrosiano non trascurò di visitare le numerose parrocchie diocesane, rendendosi capillarmente presente al clero e ai fedeli. Del resto, già da sacerdote a Roma, aveva cercato di essere sempre un prete, portando carità e catechismo nelle borgate romane, confessando nelle parrocchie, seguendo la San Vincenzo, i mutilatini di don Gnocchi.
Conosceva bene e non nascondeva al suo popolo i problemi del tempo, in una società che stava avviandosi verso il boom economico seguito al dopoguerra. Era consapevole che la Chiesa dovesse assumere un nuovo atteggiamento di missionarietà nella coerenza di vita cristiana di tutti e nel ministero dei sacerdoti. A loro disse: «Vi mando deboli in un mondo potente; vi mando inermi in un mondo forte; vi mando poveri in un mondo ricco» e «in un mondo che a tutta prima sembra non comprendervi, non desiderarvi», un mondo che «cercherà di sostituirvi nei vostri stessi doveri: d’insegnamento, di educazione, di carità, di assistenza. Apriamo gli occhi! Non illudiamoci con formule fatte: che tutti sono buoni, che tutti sono cattolici, che, tanto, il Signore li salva tutti».
Il suo fu lo stile dell’ascolto e dell’azione: approfondire e allargare “nel nome del Signore”, come scelse nel motto episcopale.
Il Times definì la sua più famosa iniziativa “Fire in Milan” (incendio a Milano): la missione cittadina del 1957, che resta la più grande mai predicata nella Chiesa cattolica, 302 sedi di predicazione parrocchiali, con 720 corsi predicati da 18 vescovi, 83 sacerdoti, 300 religiosi, non solo nelle chiese ma anche in fabbriche, cortili, caserme, ospedali e uffici. Già, “i lontani”, per i quali, ben consapevole della scristianizzazione della città, il Pastore pensa la missione del 1957, per «scuotere i tiepidi e raggiungere la grande massa dei lontani», appunto.
Forse, come riconosce Montini stesso, l’obiettivo non venne raggiunto – «la porta è rimasta chiusa» –, ma la scelta dell’evangelizzazione restava in eredità alla sua Chiesa. Risollevò la Chiesa milanese in un periodo molto difficile, durante il quale divenne noto come uno dei membri più progressisti della gerarchia cattolica. Avviò la costruzione di oltre 100 nuove chiese, con il “Piano Nuove Chiese”, nelle zone dove sorgevano nuovi agglomerati urbani: ne verranno costruite 123.
Voleva un’esperienza di Chiesa “di popolo” e sollecita alla trasmissione della fede, per attirarvi i “lontani”. E per questo egli si mostrò sempre disponibile, organizzando la missione perfino per le fotomodelle, varcando la redazione della Gazzetta dello Sport: nelle sue agende degli otto anni ambrosiani si contano undicimila nomi.
Sensibile anche all’apertura ecumenica, fin dall’inizio nel 1956 l’Arcivescovo incontra sei Pastori anglicani.
Il movente di tutto fu certamente la carità, anche nelle iniziative più ordinarie, come quella del pranzo offerto ai milleseicento poveri il giorno del suo ingresso in diocesi. La sua fu anche un’azione in gran parte nascosta, come le visite agli indigenti, vestito da semplice prete, senza che lo si sapesse. Una delle suore che vivevano con lui ha testimoniato che l’arcivescovo, girando nel suo a«partamento, ripeteva: «Ho troppa roba nel mio comò: datela ai poveri, datela ai poveri».
Nato e cresciuto in una famiglia borghese, nominato vescovo fu subito vicino al mondo operaio: «Se mai una parola particolare su questo tema [il lavoro] io devo qui pronunciare, è per il mondo del lavoro che qui mi circonda e che forma il vanto e la caratteristica di Milano, viva e moderna». L’attenzione al lavoro sarà un tratto decisivo di tutto il suo periodo milanese. Inizialmente avverso alla corrente democristiana di sinistra (“la Base”), non escluse alleanze tattiche con i socialisti a favore del bene comune. è in questo clima che nel 1961 nacque la prima giunta di centro-sinistra di Milano.
Montini si colloca all’intersezione di due fenomeni che influenzeranno il panorama sociale e politico milanese per i sessant’anni successivi: l’apertura a sinistra e la presenza importante di Comunione e Liberazione. Scriverà a don Giussani, il fondatore del Movimento: «Io non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma ne vedo i frutti e le dico: vada avanti così». Ed è con la partecipazione di Gioventù Studentesca alla missione che forse il movimento comincerà ad attenuare il suo carattere borghese ed elitario degli inizi.
Fu lui a erigere in parrocchia la chiesa guanelliana di San Gaetano a Milano, annessa all’omonimo istituto scolastico per ragazzi, in una zona allora in espansione urbana: la consacrazione dell’edificio resta uno dei suoi ultimi atti pastorali, prima di essere eletto Papa.