Al fuoco nuovo, poi, si accende il cero pasquale che l’antico inno dell’Exultet canta come la luce che fuga l’oscurità e le tenebre, rendendo la notte chiara come il giorno.
Il cero è immagine della colonna di fuoco che guidava nella notte il popolo di Israele nell’uscita dalla schiavitù dell’Egitto (cfr. Es 13, 21-22).
Alla luce del cero sono accese anche le lampade consegnate ai neofiti, per indicare che sono divenuti essi stessi luce con il sacramento del Battesimo.
La luminosità che culmina nella celebrazione di Cristo risorto prolunga i suoi raggi lungo tutto il tempo pasquale, giungendo a grande intensità nel giorno di Pentecoste. Il cero, infatti, rimane accanto all’ambone per tutti i cinquanta giorni della Pasqua e acceso in ogni celebrazione liturgica per rischiarare il cammino della Chiesa verso la pienezza del Regno.
Il vocabolario della luce, che nella liturgia come nella Sacra Scrittura da cui deriva è simbolico e figurato sia nei verbi che nei sostantivi, indica la realtà della salvezza come un’azione illuminatrice e descrive gli autori della salvezza come soggetti dell’attività di illuminazione e i destinatari della salvezza come termine di tale attività. I battezzati sono infatti chiamati “illuminati” (phótizomenoi), perché hanno conosciuto Dio – come ricorda Clemente d’Alessandria – e sono da Lui conosciuti come figli adottivi in Cristo, il Figlio amato.
Dio Padre è lodato come la fonte della luce, il Figlio - raffigurato attraverso il simbolismo del cero - è l’astro del mattino che illumina la speranza di salvezza di coloro che confidano in lui, mentre lo Spirito Santo è il fuoco di Pentecoste che accende la testimonianza evangelica dei discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
Cristo luce ha così nella liturgia pasquale il suo simbolo culminante nel cero acceso, portato in processione nella chiesa e innalzato tre volte al canto del Lumen Christi e tre volte immerso nel fonte perché “accenda” in esso la potenza di risurrezione per i rinati nel battesimo.
La proclamazione durante il triplice innalzamento del cero significa che la luce è Cristo stesso. Questo solenne annuncio evoca il testo dell’inno di Simeone (cfr. Lc 2, 32) in cui Cristo è annunciato come illuminazione di tutti i popoli attraverso la luce di testimonianza di coloro che sono stati “incendiati” di carità evangelica dalla sua luce.
Il Preconio pasquale (Exultet) è perciò un canto tutto incentrato sul tema della luce, cui fa da sfondo e da contrasto la notte che viene progressivamente illuminata dal bagliore del cero, dalla Parola proclamata, dai sacramenti ricevuti e dall’Eucaristia che ci trasforma nel corpo luminoso di Cristo, ossia in sostanza di Chiesa.
La risurrezione di Cristo cantata dall’antico Inno non è però fine a se stessa, così come la luce del cero. Infatti, questa grazia di risurrezione è per noi, ovvero perché sia portata a compimento la nostra umanizzazione con la nostra piena partecipazione alla vita di Dio.
Analogamente la luce del cero è per noi, perché siano rischiarate le tenebre del nostro cuore ed emerga la creatura nuova che Dio ha plasmato e fatto risorgere dalle acque del Battesimo per introdurla con Lui nel giorno senza tramonto.
Tutti gli eventi di salvezza enumerati a più riprese nella Grande Veglia ricordano la qualità con cui l’uomo ha conosciuto la rivelazione di Dio, ha sperimentato la sua presenza salvifica e redentrice: ossia come Emmanuele, il Dio-con-noi.
Il cero, la cui luce si congiunge a quella degli astri del cielo (la Veglia, infatti, si compie al sorgere dell’alba che apre il giorno senza più tramonto, la Domenica, ovvero il giorno del Signore), e la stella del mattino che trova accesa la sua fiamma sono il simbolo del Risorto che illumina le tenebre di morte dell’umanità, per aprire a tutti le porte del suo Regno di luce.
Questa realtà luminosa che è Cristo risorto ha manifestato i suoi bagliori già sulla croce, in cui risplende la potenza salvatrice del Signore.
Dobbiamo ricordare che la vittoria della resurrezione è sempre teandrica, è infatti la divina-umanità di Cristo che vince la morte. Noi che abbiamo peccato a causa del serpente, mangiando il frutto dell’albero, siamo liberati da colui che è salito su questo albero e si è lasciato crocifiggere per noi.
Questo cero che brilla è anche simbolo dell’albero che dà vita, come ricorda la iscrizione del cero pasquale della Basilica di san Paolo fuori le mura a Roma: «L’albero reca i frutti. Io sono un albero che reca luce. E doni. Annunzio gioia in un giorno di festa. Cristo è risorto. Ed io offro tali doni» (questo il testo originale in latino: «Arbor poma gerit. Arbor ego lumina gesto. Porto libamina. Nuntio gaudia, sed die festo. Surrexit Christus. Nam talia munera p[rae]sto»).
La grande colonna su cui brilla il cero pasquale manifesta la continuità che intercorre tra la croce e la risurrezione, tra la morte e la vita; così come è significativo che la luce venga dal consumarsi della cera e trovi energia in una storia consunta dai fallimenti e impastata di peccato (cfr. Mt 1, 1-17).
Davvero, Cristo con la sua morte ha vinto la morte e ha donato a noi la vita. Questo ci annuncia il cero pasquale nel suo progressivo illuminare le tenebre del mondo, finché tutto rinascerà nella luce di Dio.