È significativo che le grandi battaglie culturali odierne in occidente hanno come tema la morte, o meglio come morire in maniera dolce, indolore e sicura (si pensi ai dibattiti sull’eutanasia), come se essa fosse l’unica cosa che la società occidentale è in grado di dare. Se si entra in una farmacia, sembra di entrare in un negozio di giocattoli: tutto è soft e ovattato. Ma come ricorderebbe Freud, quanto più si reprime qualcosa, tanto più essa si fa sentire in maniera inquietante, fino ad avvelenare l’intera vita. A questo proposito, si può pienamente sottoscrivere la denuncia di T. Ushte, sciamano Sioux: «Voi bianchi diffondete la morte. La comprate e la vendete. Con i vostri deodoranti i vostri profumi puzzate di morte, ma avete paura della realtà.
Avete paura di guardare in faccia la morte. L’avete resa igienica, l’avete impacchettata, l’avete spogliata della sua dignità. Noi indiani pensiamo spesso alla morte. E anch’io. Oggi per esempio sarebbe un giorno buono per morire, non troppo caldo e non troppo freddo. Un giorno buono per salutare gli amici, per dire ciò che provo per loro. Un giorno per un uomo felice per arrivare alla fine del suo cammino. Un uomo giocoso con molti amici. Altri giorni non sono così buoni. Essi sono riservati agli egoisti e ai solitari, a coloro che riescono solo con difficoltà a separarsi da questa terra. Per voi bianchi ogni giorno sarebbe probabilmente un cattivo giorno». È interessante la sua conclusione: rimuovere il pensiero della morte rende cattivi tutti gli altri giorni.
Per questo il lavoro del lutto è indispensabile per imparare la saggezza del vivere, elaborare l’esperienza della perdita, delle persone care ma anche della immagine di noi stessi, accettando che non sia più la stessa prima. Per questo la domanda sul senso della vita non può essere disattesa. Quando si è in forze, capaci e brillanti la si può evitare ma a un certo momento diviene sempre più centrale, fino a metterci con le spalle al muro. Lo psicanalista Jung notava che il disagio che porta a iniziare una terapia ha una radice spirituale, che va affrontata come tale, riconoscendo la necessità di una dimensione religiosa. Egli individua uno spartiacque a partire dal momento in cui (più o meno a metà della vita) la problematica religiosa diventa sempre più presente fino a diventare la motivazione fondamentale del lavoro terapeutico: «Tra tutti i miei pazienti che avevano più di 35 anni, non ne ho trovato uno il cui problema ultimo non fosse rappresentato dal suo comportamento religioso.
Anzi, in ultima analisi, ognuno si ammala perché ha perduto ciò che le religioni vive hanno dato in tutti i tempi ai loro fedeli, e nessuno è realmente guarito se non ha ricuperato la propria dimensione religiosa. Prima o poi il tema religioso fa capolino nel racconto di vita dei pazienti e non costituisce una cosa di poco conto nella lettura del senso della propria vita». Crisi significa letteralmente giudizio, valutazione su se stessi e il fondamento della propria vita: in questo senso si può dire che dopotutto si invecchia come si è vissuti, per questo a partire dai 40 anni si accentuano alcuni elementi della personalità, che prima giacevano più nascosti, tenuti a bada da altre cose: «Dopo i 40 anni ognuno è responsabile della faccia che porta» (proverbio polacco).
Si può dunque dire che la crisi mostra chi siamo veramente, mostra la verità di noi stessi: «Molti studiosi dell’invecchiamento concordano che da vecchi, siamo le stesse persone di sempre solo che lo siamo un po’ di più. La persona gretta diverrà ancora più gretta, il timoroso diverrà ancora più timoroso e l’apatico potrebbe scivolare in una sorta di paralisi. Nonostante ciò, cambiamenti di personalità sono possibili persino a settanta, ottanta e novant’anni. Lo sviluppo normale non ha fine e nel corso della vita nuovi compiti importanti, o delle crisi, nasceranno, soprattutto nuove possibilità di cambiamento» (Viorst). [per un approfondimento cfr G. Cucci, La forza dalla debolezza, Adp, cap. V]