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Mercoledì, 29 Marzo 2017 14:34

Esempio al clero, speranza al gregge e rifugio ai poveri

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San Carlo Borromeo

di Gabriele Cantaluppi

Con la nostra mentalità di oggi siamo facili a esprimere giudizi sommari sulla figura di San Carlo Borromeo, ma non c’è niente di più falso della storia fatta per sommi capi, per luoghi comuni e per etichette. Visto più a fondo, alla luce degli eventi del suo tempo e delle sue azioni, appare un uomo di grande spessore umano e morale, che ha ancora qualcosa da dire a noi oggi, pur in una situazione assai lontana da quella in cui è vissuto lui.

Nacque ad Arona nel 1538 da una delle più ricche famiglie nobili lombarde, i Borromeo. Secondo le consuetudini  del tempo, non essendo figlio cadetto, fu destinato alla vita religiosa, così che a otto anni ebbe la tonsura e a dodici divenne abate. Quando aveva vent’anni gli morì il padre e  su di lui, più che sul fratello maggiore Federico, cadde la responsabilità della grande famiglia.

La madre, Margherita de’ Medici, era nipote di papa Pio IV, che valorizzò il giovane Carlo chiamandolo a soli ventun anni nella Curia romana, dandogli numerose cariche, fra le quali quella di  amministratore dell’arcivescovado di Milano e fino a creare apposta per lui la funzione di segretario di stato, nominandolo a ventidue anni cardinale diacono.

Ma qui rifulge la grandezza del Borromeo: pur onorando gli incarichi con sapienza e perizia, non s’inorgoglì, mantenne umiltà e modestia, evitò lusso e piaceri conservando amore per gli studi.

Mai avrebbe abusato della stima generale di cui godeva e che avrebbe fatto presagire una sua salita al soglio pontificio: anzi, seppe rimanere sempre se stesso, pur disponendo di un grande  prestigio nella Curia Romana, di grandi rendite pecuniarie e di una moltitudine di persone di ogni rango sociale addette alla collaborazione con lui.

La principale cura del papa era quella di portare a compimento il Concilio di Trento e  trovò la piena collaborazione di Carlo, che non si risparmiò nel fare da collegamento fra i padri conciliari e  la sede papale. Fu poi sua cura portare a realizzazione  concreta le disposizioni, le riforme e le nuove strutture stabilite dall’assise conciliare.

Fu un’opera eroica: molto tempo di inerzia, di disorganizzazione, di lassismo, di mondanità aveva minato profondamente la vita della Chiesa, soprattutto in chi avrebbe dovuto essere lievito, i sacerdoti e i vescovi. 

L’opera di Carlo fu improntata da uno spirito di servizio e di senso di responsabilità verso la gente affidata alle sue cure, spiegando la sua grande capacità organizzativa nel venire incontro alle necessità materiali della società romana, nel promuovere la sistemazione urbana, il miglioramento delle opere pubbliche, la cura dei mendicanti, dei pellegrini, la riorganizzazione dei monti di pietà. Né trascurò ciò che era più legato al suo ruolo: il restauro dei luoghi di culto.

“Humilitas”, l’insegna che scelse per il suo blasone cardinalizio, fa da marchio al suo spirito; come pure è significativa la grande amicizia con san Filippo Neri, il “Pippo buono” apostolo di Roma.

Nel 1562 morì il fratello maggiore Federico, capo ufficiale della famiglia e, secondo le regole del tempo, sarebbe toccata a lui la successione. Il papa gli avrebbe certamente concesso la secolarizzazione e le dovute dispense, ma Carlo decise di rimanere nello stato ecclesiastico e, a ventiquattro anni, venne ordinato sacerdote e vescovo, rinunciando alla successione e al titolo di conte.

Due anni dopo, alla morte di Pio IV, lasciò definitivamente Roma con tutte le cariche, gli onori e l’allettante carriera che aveva davanti e, obbedendo ai dettami del Concilio di Trento,  raggiunse Milano per vivere effettivamente il suo ministero di vescovo, nonostante il nuovo papa Pio V gli avesse chiesto di restare a Roma.

Liquidò tutti i suoi averi, restituì agli ordini religiosi i titoli di abate che gli erano stati conferiti e a ventotto anni si insediò sulla cattedra arcivescovile ambrosiana, dove rimase  fino alla morte avvenuta  nel 1584.

Con mano ferma, decisione e determinazione cominciò a imporre al clero una disciplina e delle regole da tempo dimenticate, eliminando lusso, ricchezze, privilegi e vantaggi. Tutto ciò non gli fu facile in un mondo ormai incallito nei privilegi e nel lassismo, per cui ci furono resistenze, rivolte, tumulti e dovette persino contrastare col governatore spagnolo. Addirittura, mentre pregava in cappella, un indegno frate tentò di ucciderlo con un colpo di archibugio, ma il colpo fallì e l’attentatore fu generosamente perdonato.

La vita austera che proponeva ai religiosi era praticata prima da lui: lavoro indefesso, frugalità dei pasti (mangiava una volta al giorno pane, verdura e beveva acqua), poco sonno sopra un pagliericcio e lunghe ore di preghiera e di meditazione e adorazione del Santissimo Sacramento. I suoi scritti di spiritualità furono molto apprezzati e presi ad esempio anche nei secoli successivi.

In occasione della peste che infierì in Milano nel 1576, il santo vescovo non si risparmiò nell’opera di soccorso spirituale e materiale, restandone egli stesso colpito. Guarito, continuò la sua assidua presenza soccorrendo in ogni modo chi ne aveva bisogno, fino ad aprire il suo palazzo e quello arcivescovile ai malati, trasformandoli in ospedali.

Certamente nella sua personalità ci sono aspetti che possono essere criticati: la severità sconfinava nel rigorismo, nel dirigismo. Usò energia nell’arginare la penetrazione del pensiero protestante;  talvolta preferì la fermezza delle sanzioni alla persuasione; la sua sapienza amministrativa a volte non mancava di pignoleria.

Però la capacità di tenere a bada la propria superbia, rinunciare agli onori e alla potenza, uscire indenne da quel groviglio di passioni mondane, di tensioni e avidità che rappresentò in quel periodo la Curia romana, riscatta le sue umane debolezze, e soprattutto la generosità lo mostra come un raro esempio di fede attuata e vissuta.

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