Era il terzogenito di tre fratelli e una sorella, tutti educati alla fede dai genitori Macario Sánchez e María del Río. A lui, nato il 28 marzo 1913 a Sahuayo, nello stato di Michoacán, uno dei trentuno che compongono il Messico, venne dato il nome di José, Joselito per gli amici. La miseria impose alla famiglia di emigrare a Guadalajara proprio poco dopo che, nel 1917, era entrata in vigore una nuova Costituzione, estremamente intollerante contro la Chiesa cattolica.
Visse la fanciullezza e la preadolescenza nella normalità di una buona salute e della giovialità, sfidando con l’impegno generoso in parrocchia e con la pratica dei sacramenti ricevuti clandestinamente il pericolo della vita, dovuto all’assoluta proibizione del culto pubblico.
Un ruolo importante giocò la sua appartenenza all’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana, una vera e propria avanguardia contro la crescente propaganda antireligiosa.
Nel 1926 il presidente Plutarco Elías Calles proibì esplicitamente per legge ogni forma di aggregazione ecclesiale, i sacerdoti stranieri furono espulsi dal Paese e le scuole e alcune opere caritative chiuse. I cattolici messicani non si rassegnarono: per iniziativa di alcuni laici, sorse la Lega in Difesa della Libertà Religiosa, i cui membri, pur deplorando la guerra, decisero d’imbracciare le armi per scendere sullo stesso campo di chi voleva limitare la loro libertà. Al grido di «Viva Cristo Re», per cui furono dispregiativamente chiamati “cristorreyeros” e più tardi “cristeros”, questi combattenti moltiplicarono i loro interventi specialmente negli Stati del Messico centrale.
Anche Macario e Miguel, i suoi due fratelli maggiori, erano entrati nel movimento e anche lui desiderava seguirli, impedito comprensibilmente dai genitori a causa della sua giovane età. “Mamma, non è mai stato così facile come adesso di andare in paradiso” controbatteva, così che alla fine ottenne la benedizione paterna.
Pregando sulla tomba dell’avvocato martire Anacleto González Flores, ora beato anche lui, che aveva dovuto accettare l’intervento armato, ma era stato arrestato e torturato a morte, chiese la grazia del martirio.
E il momento arrivò presto. Nell’estate del 1927 riuscì ad unirsi ai «cristeros» insieme ad un altro amico, adolescente come lui, svolgendo compiti che non comportavano la partecipazione alla lotta attiva.
Il suo compito era quello di attendente alle truppe, ma in seguito, grazie alla sua disciplina, alla sua religiosità e alla sua dedizione alla causa, divenne trombettista e portabandiera. Per proteggere la sua famiglia, chiese di farsi chiamare José Luis.
Nella battaglia di Cotija, il 6 febbraio 1928, il cavallo del generale Guízar Morfín venne ferito a morte. José gli offrì la propria cavalcatura dicendo: «La vostra vita è più utile della mia», diventando così facile preda da parte dell’esercito federale, che lo catturò insieme a Làzaro, un giovanissimo indio.
Nella prigione scrisse alla madre: «Mia cara mamma, sono stato fatto prigioniero in combattimento oggi. Credo di stare per morire, ma non importa, mamma. Rassegnati alla volontà di Dio. Io muoio molto contento, perché muoio in prima linea, a fianco di Nostro Signore. Non affliggerti per la mia morte: di’ agli altri miei fratelli che seguano l’esempio del più piccolo e tu fa’ la volontà di Dio. Abbi coraggio e mandami la tua benedizione insieme a quella di mio padre. Salutami tutti per l’ultima volta e tu ricevi per ultimo il cuore di tuo figlio che ti vuole tanto bene e che desiderava vederti prima di morire».
Il capo politico, quel suo padrino di prima comunione, lo blandì con numerose proposte lusinghiere, che egli rifiutò con fermezza. Venne perfino chiesto alla famiglia un riscatto per la sua liberazione, nonostante egli avesse detto ai genitori di non pagare, perché “la sua fede non era in vendita”. Il riscatto fu pagato ma, nonostante egli fosse stato messo a morte, non venne più restituito alla famiglia.
In carcere trascorreva il suo tempo pregando il Rosario e cantando e tramite una finestrella poteva comunicare con l’esterno, così che poche ore prima di morire riuscì a fare arrivare a una sua zia una lettera in cui comunicava che probabilmente di lì a poco sarebbe stato ucciso e chiedeva di fargli portare la comunione, che in effetti ricevette verso le otto di sera, con le ostie nascoste tra il cibo che gli fu dato.
A notte inoltrata, i soldati gli spezzarono i denti col calcio di un fucile, gli spellarono le piante dei piedi con chiodi acuminati, fino a farli sanguinare, e lo costrinsero a vedere impiccato un giovane indio, catturato con lui, anche se poi costui riuscì a sopravvivere. Poi lo spinsero, scalzo, per le strade della città verso il cimitero municipale. Tra le lacrime e le preghiere continuava a inneggiare: “Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe”. E la stessa invocazione ripeteva, sul ciglio della fossa, con un filo di voce mentre cadde sotto le pugnalate inferte per ordine del capo della guarnigione, che non voleva che si sentissero gli spari di armi da fuoco, dato che c’era il coprifuoco. “Ci vedremo in paradiso” fu il messaggio che lasciò rispondendo al capo che cinicamente gli chiese cosa volesse lasciare detto al padre. Un colpo di pistola sparato alla testa coronò il martirio.