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Mercoledì, 18 Febbraio 2015 15:39

«Don Guanella ha il metodo della periferia»

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Un «pellegrinaggio» ideale a cento anni dalla morte di san Luigi

di don Nino Minetti

Da alcuni mesi abbiamo iniziato l’anno giubilare per il centesimo anniversario del passaggio al cielo del nostro santo Fondatore, don Luigi Guanella. In questa circostanza è doveroso fermarsi, consultare le memorie e riascoltare con la sensibilità di don Guanella il gemito dei poveri di oggi. 
Dalla consultazione delle “carte” in nostro possesso, la morte di don Luigi viene posta subito sotto il segno della grandezza dell’uomo e del sacerdote scomparso.
Si celebra la sua vita coraggiosa, serena, nonostante le indicazioni contrarie. Si ammira un’esistenza totalmente regolata sui ritmi proposti da Dio. Si misura la dimensione interiore di un sacerdote che ha saputo riflettere e osservarsi fin dagli anni giovanili, ma che ha dedicato anche attenzione e amore al tempo in cui è vissuto e alle persone che il sistema sociale trasformava in “scarti” umani, aprendosi senza pregiudizio verso quella modernità che poteva loro giovare fino a riscattarli.
Tuttavia il commento ideale della sua perdita viene dai suoi confratelli e dalle sue consorelle, soprattutto dai suoi immediati successori.
Per don Mazzucchi la morte svelò almeno due cose: fece emergere, in forma quasi palpabile, il grado di stima e di affetto che la gente nutriva per don Luigi e contemporaneamente mise anche il sigillo alla sua identità. Si era spento “l’Uomo dell’amore”.
«Si comprese allora quanto amore si avesse per Don Luigi – l’Uomo dell’amore, perché parve distendersi sulla città (Como) tutto un velo triste di mestizia profonda e l’avvenimento funesto fu l’argomento d’un generale duolo di lamento e di pianto» (La Divina Provvidenza, 11 (1915) 189).
I Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza fecero fatica a distaccarsi da quella bara. Sembrava non volessero privarsi degli ultimi, eloquenti messaggi o raccomandazioni che il padre e maestro avrebbe potuto trasmettere loro con il linguaggio silenzioso della morte.
«Passarono, muti dal dolore, dinnanzi alla salma cara e benedetta che parlava, anche così, con eloquenza commovente di carità; si indugiarono a fissarne le sembianze per stamparsele, con il ricordo degli insegnamenti e delle virtù di cui Egli era stato maestro sì sapiente e sì buono, nell’anima propria; baciarono ancora quelle mani sante, quella fronte angelica, lasciandovi unito, nel distaccarsene, il proprio cuore. E dissero un generoso fiat». Presero atto cioè che il testimone era passato nelle loro mani e che, da quel momento in avanti, stava a loro continuare la grande avventura di carità che don Luigi aveva iniziato, senza distogliere mai lo sguardo dalla sua visione evangelica, dal suo stile, dalla sua praticità e insieme dalla sua modernità.
Anche per don Bacciarini la morte del Fondatore si trasformò in una doppia esaltazione. Si diffuse largamente la fama della sua santità e «anche il nome dei Servi della Carità uscì dalla penombra alla luce del meriggio» (Lettera ai Servi della Carità, 27 novembre 1915). In più, secondo don Bacciarini, la morte di don Guanella ebbe anche lo straordinario effetto di farne percepire in modo tutto particolare la continua presenza, come se fosse ancora vivo e operante nelle case, tra gli ospiti, tra i religiosi. Don Bacciarini lo notava esattamente un anno dopo la scomparsa di don Luigi ed in qualità di suo successore, di chi dunque aveva fatto un’ attenta verifica della situazione.
«È trascorso un anno… eppure tutta l’umile vita della “Provvidenza” (della Casa di Como, ai cui benefattori era destinato lo scritto) si è svolta ancora intorno a Lui… Il Suo nome è sempre sul labbro di tutti noi, come nei giorni della Sua vita benedetta e più ancora. Don Luigi è l’anima della conversazione, come è l’argomento della meditazione… In ogni avvenimento, il primo pensiero è sempre a Lui… (come anche) nelle necessità e nelle ansie… Veramente: la Sua scomparsa è più apparente che reale» (La Divina Providenza, 10-11 (1916) 105-106; cfr. Lettera ai Servi della Carità, 26 ottobre 1916).
Sicuramente nasce da questa familiarità e vicinanza così tangibili, il florilegio di invocazioni che don Bacciarini rivolge al Fondatore in questo periodo, pensando o scrivendo di lui. Lo chiama ed invoca:
«Santo superiore, uomo di Dio, la dolce nostra guida, il caro padre comune, padre amato, santo fondatore, nostro padre amatissimo, benefattore e padre indimenticabile, il dolce amico del santo altare, caro e santo nostro padre». «A lui salga ogni giorno il nostro pensiero per dirgli: ‘O padre, inaridisca la nostra mano destra, si attacchi al palato la nostra lingua, cessi di battere il nostro cuore prima di allontanarci dal tuo spirito, prima di infrangere la compagine dell’opera tua, prima di contristare il tuo cuore con una vita meno degna» (Lettera ai Servi della Carità, 27 novembre 1915; cfr. Sal 137, 5s).
Di don Bacciarini infine non ci si può perdere la ricchezza delle esortazioni che rivolge ai confratelli le volte che ne ricorda la scomparsa:
“Vi conforti sempre la presenza continuata ed indefettibile del Padre tra i figli. A Lui ricorrete nelle vostre pene, a Lui parlate dei vostri affanni, a Lui levate lo sguardo in ogni necessità, in ogni incertezza, in ogni angustia: e don Luigi vi sarà sempre paternamente largo di conforto e di aiuto. Con la cara immagine di don Luigi sempre dinanzi agli occhi, continuiamo a promuovere le opere che egli ci lasciò in eredità preziosissima e cresciamo ogni giorno più nel suo spirito, facendo tesoro dei suoi esempi di povertà, di umiltà, di carità, di sacrificio, di preghiera instancabile» (Lettera ai Servi della Carità, 22 ottobre 1916).
Oggi, a cento anni di distanza, non c’è nessuna di queste raccomandazioni che sia invecchiata. Mi permetto di ribadirle, aggiungendone una che considero la chiave per mantenerci vivi nella scia del Fondatore. 
Ritorniamo alla carità misericordiosa, con le strategie da lui volute. 
La prima: uscire da se stessi, cercare il bene degli altri, aprendosi, donandosi, accogliendo, entrando in dialogo ed in comunione con tutti. La seconda: scegliendo la periferia.
A ben guardare, prima ancora che Papa Francesco ce lo ricordasse, queste dimensioni erano già nell’atto di nascita della Congregazione. Esistiamo per il dono di tutto noi stessi nella missione, per la carità appunto. Forzature? Ecco come legge le nostre origini uno storico che da tempo studia i nostri documenti:
«Don Guanella ha il metodo della periferia. Tiene lontano le sue opere dalle piazze centrali e non solo perché manca di mezzi. Le sue case sorgono in piccoli paesi, fuori dalle grandi vie di comunicazione, in luoghi ignorati dai più. E in città maggiori, da Como a Milano, eccole al margine del tessuto urbano, nelle periferie o anche oltre, come avviene a Roma per la colonia agricola di Monte Mario. Nell’essere periferico, don Guanella compiva una scelta di universalità cristiana. Chi sta al centro è, nel grande mondo, una piccola minoranza. Il più del mondo è dato dalle innumerevoli periferie, dalle tante Galilee delle genti, da quelli che i salmi chiamano gli estremi confini, le isole lontane, i mari lontani, le soglie dell’Oriente e dell’Occidente. È qui che Dio si rivela e dona speranza, non tra chi gode di essere al centro» (Roberto Morozzo Della Rocca, Don Guanella cittadino del mondo. Roma-Montecitorio, 12 settembre 2011).
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