“La malattia – come riporta il Sir – causa una perdita, oltre che dell’autonomia fisica, anche della stima di sé perché la persona malata si percepisce come un qualcosa che si è guastato. Di qui l’importanza di aiutarla a riappropriarsi della propria dignità, ossia della convinzione che si vale per il solo fatto di essere noi stessi”. Secondo la bioeticista, il paziente deve imparare a “rivolgere a se stesso lo sguardo della fondatrice dell’hospice, Cicely Saunders che diceva: ‘Tu vali in ogni condizione; io ti curo perché sei tu’”.
La “terapia della dignità”, messa a punto nei primi anni Duemila dallo psichiatra canadese Harvey Max Chochinov, noto in tutto il mondo per il suo impegno e le sue ricerche sui bisogni psicologici dei pazienti in fase terminale, “è un percorso psicoterapeutico inserito in un rigoroso protocollo, destinato al paziente e, se vogliono, anche ai membri della sua famiglia, che può essere svolto solo da specialisti”, precisa Mantovani. I malati sono invitati a parlare di sé e a registrare ricordi, pensieri e sentimenti che ritengono significativi e desiderano lasciare in eredità ai loro cari dopo la morte: un modo per creare qualcosa che sopravviverà loro.
Il parlare di sé nel tempo che rimane diventa allora “un rendersi conto del proprio valore per sé e per il resto del mondo. Un passaggio chiave all’interno delle cure palliative che, messe in atto da un’équipe multidisciplinare, includono oltre al sollievo dal dolore anche la presa in carico degli aspetti spirituali, psicologici e relazionali perché è nella totalità della dimensione metafisica e fisica che troviamo la cifra del nostro essere”, conclude la bioeticista.
L’incontro del 20 febbraio intende segnare l’avvio di un percorso che vedrà Scienza & Vita impegnata sul territorio nazionale in un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dell’accompagnare e prendersi cura di chi è in fase terminale. E proprio sulle cure palliative sarà incentrato il convegno nazionale associativo di fine maggio.