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Lunedì, 02 Dicembre 2019 17:05

Chi ha un perché nella vita possiede una carta vincente

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La morte cifra dell’esistere umano

di Giovanni Cucci

Le ricerche compiute circa le fasi della elaborazione del lutto confermano la verità di un’affermazione di Nietzsche: «Chi ha un perché nella vita può sopportare quasi ogni pena», un aforisma che V. Frankl riprende significativamente come elemento fondamentale per la sopravvivenza nell’esperienza autobiografica descritta nel libro Uno psicologo nei lager. Frankl aveva notato che la possibilità di sopravvivere nelle «situazioni estreme» non era data in primo luogo dalla costituzione fisica, dalla robustezza o dalle forze a disposizione, ma dalla capacità «sapienziale» di poter trovare un significato in ciò che si stava vivendo. Ciò forniva forza e motivazione per affrontare le prove più terribili.

L’insegnamento ricavato dall’esperienza del lager ha trovato per Frankl una conferma di fronte ai problemi e alle difficoltà della vita ordinaria, al punto da elaborare una proposta psicologica che si è ben presto largamente diffusa e praticata nel mondo, la logoterapia, la terapia del significato, «l’esigenza dell’individuo di dare un senso alla propria esistenza». Quando non trova un significato per la propria vita l’uomo, anche se in buona salute, finisce per scegliere volontariamente la morte, come si può notare dall’impressionante rilevanza della tematica del «fine vita» nell’odierno contesto culturale.

Un esempio letterario

Per capire come concretamente si articola l’elaborazione del lutto, può essere utile riprendere l’esperienza autobiografica di un celebre scrittore, C. S. Lewis, descritta nel libro Il diario di un dolore, in occasione della perdita della moglie H. J. Davidman. Nel corso di queste pagine Lewis si osserva introspettivamente, notando una progressiva trasformazione interiore, scandita da alcune tappe fondamentali, le tappe del lutto, che rassomigliano in maniera impressionante a quanto emerso nei precedenti contributi in sede psicologica.

Il tema della morte e del lutto rimanda a una serie di contrasti, anche di contraddizioni, sempre compresenti, smentendo le leggi della logica. Da una parte ogni dolore è unico, irripetibile, non confrontabile con quello di altri; ciascuno lo vive in maniera tutta propria. Eppure il confronto con il dolore altrui aiuta a elaborare il proprio dolore, come lo stesso Lewis riconoscerà alla fine del libro. La morte dell’altro è l’unica maniera di introdursi all’esperienza della morte e del proprio essere mortali: «Per un istante approdiamo al paese della morte. Subito dopo siamo già rientrati dal regno delle tenebre. Ma in quel solo istante il gran freddo non ci ha forse colpiti? Saremo ancora gli stessi dopo averlo sentito?» (P. L. Landsberg).

Un’altra contraddizione è interna al lavoro stesso del lutto. Esso è come un tunnel, se ne può uscire solo accettando di attraversarlo interamente; eppure ciò può essere fatto solo se in qualche modo se ne è già usciti, grazie a una luce, per quanto fioca, posta al di là della galleria, capace di illuminarne il cammino.

Qualora tale lavoro venga rifiutato, cercando di trattenere con sé i propri cari e negandone la scomparsa, il lutto, per riprendere la terminologia di Freud, diventa «melanconia»: mentre il primo è un dolore legato a una perdita puntuale, la melanconia è uno smarrimento globale, è l’intero soggetto a perdersi nel dolore. Lewis descrive questa deriva con parole eloquenti: «Tanto varrebbe credere, come gli antichi egizi, che si possono trattenere i morti imbalsamandoli. Non riusciremo mai a persuaderci che se ne sono andati? Che cosa resta? Un cadavere, un ricordo. Era H. che amavo. Come potrei pensare di innamorarmi del mio ricordo di lei, di un’immagine creata dalla mia mente?».

Il lutto va nella direzione contraria e può essere espresso in maniera lapidaria con le parole del vangelo: «Scioglietelo e lasciatelo andare» ordina Gesù ai circostanti dopo aver resuscitato Lazzaro (Gv 11,44). È la suprema forma di amore, rifiutare la tentazione del possesso come ricorda un bellissimo proverbio inglese: «Se ami qualcuno, devi lasciarlo andare. Se ritorna è tuo. Se non ritorna non è mai stato tuo». Il lavoro del lutto è complesso e difficile perché racchiude in sé le dimensioni fondamentali della vita: l’amore, la morte, il dolore, la non possessività, la condivisione della sofferenza altrui. Per questo una tale esperienza è fondamentale per la maturazione del soggetto che la intraprende. Compiendola, egli scopre aspetti sconosciuti, dell’altro come anche di sé, che cambiano la sua maniera di vedere la vita e di esprimere al meglio le proprie possibilità: come nota il vangelo, solo se il chicco di grano caduto in terra muore può portare frutto (Gv 12,24).

La morte apre alla possibilità di una nuova nascita.  

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