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Sabato, 05 Maggio 2018 10:58

La solitudine disagio e risorsa

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di Giovanni Cucci

La solitudine può mettere a disagio quando trova la persona distante dal suo essere più profondo, quando vive con superficialità, nella vuota chiacchiera come direbbe Heidegger, che quanto più è vuota e superficiale tanto più, stranamente si diffonde perdendosi nelle cose da fare, nelle persone da vedere, nel pettegolezzo del momento… sperando che questo possa riempire il vuoto che tormenta. La solitudine non accettata sembra essere all’origine di relazioni interpersonali possessive e di una comunicazione malata: «Sovente pare che il pettegolezzo, la condanna delle azioni altrui e gli attacchi aperti contro l’altrui modo di vivere siano più segno di dubbio nei nostri propri riguardi che frutto di convinzioni solidamente fondate» (Nouwen).

Questa lontananza da sé è anche all’origine dell’insicurezza di fondo di chi non sa bene quello che vuole e ha l’abitudine di chiedere con insistenza all’amico consigli su cose fondamentali della sua vita, senza trovare risposte perché non è in grado di ascoltare la voce del cuore. A un giovane che chiedeva se diventare o no scrittore Rilke rispose: «Tu mi chiedi se i tuoi versi sono buoni. Lo chiedi a me. Lo hai già chiesto prima ad altri. Li hai inviati alle riviste. Li paragoni ad altre poesie e ti secca quando un editore rifiuta i tuoi sforzi. Ora io ti prego di smetterla. Tu guardi al di fuori ed in questo momento non dovresti proprio farlo. Nessuno può consigliarti o aiutarti. Nessuno. C’è un’unica via. Entra in te stesso. Questo, sopra ogni cosa, chiedi a te stesso nell’ora più silenziosa della tua notte: “Debbo scrivere?” Scava in te stesso per ottenere una risposta dal profondo. E se essa dovesse essere affermativa, se a questa domanda la risposta fosse un forte e semplice “Devo”, allora costruisci il tuo vivere secondo tale necessità».

La solitudine, ancora, diventa una dimensione insopportabile dell’esistenza quando non è accompagnata dalla presenza di un’affettività e spiritualità mature, e questo, se è una verità di ogni uomo, vale in modo particolare per la persona consacrata: «L’esperienza mi ha convinto che, quando si tratta di celibato, le persone sono più vulnerabili se non hanno una vita spirituale convenientemente matura. È solo attraverso la preghiera che il sentirsi soli può trasformarsi in solitudine. Quando ti sei salvato dal senso di isolamento con la preghiera quotidiana e sei in grado di stare da solo, allora puoi diventare un membro della comunità. È allora che cominci a servire gli altri. Bonhoeffer diceva: “Non puoi essere veramente un uomo di comunità finché non hai imparato a essere un solitario”. C’è sempre il pericolo che un celibe diventi uno scapolo nel senso sbagliato; che si preoccupi troppo di sé e si circondi di piccole comodità. Il celibato non è una scelta di vita in cui neghiamo a noi stessi una cosa per trovare compensazione in altre. La testimonianza del celibato deve essere qualcosa di positivo in sé e non deve aver bisogno di appoggi e puntelli per essere sostenuta» (card. Hume).

Accettare la propria solitudine significa dunque essere diventati amici di se stessi e solo in questo modo diventa possibile essere amici di un altro. La solitudine acquista così un valore particolare nella vita perché rivela in modo discreto e sofferto, la natura spirituale dell’uomo; qui infatti lo spazio e il tempo sembrano come messi tra parentesi avvertendo nel contempo una presenza così intima delle persone care che nessuna vicinanza fisica potrebbe rendere; alcuni istanti di silenzio sono così intensi e forti che sembrano durare un’eternità e segnano per sempre. Essi rivelano la nostra natura spirituale, perché in questi momenti sembra rendersi presente l’eternità, costituiscono un punto di incontro tra il cielo e la terra. È il portare nel cuore l’altro che ce lo fa sentire vicino, anche nella sua mancanza: «Varie volte, nel corso dell’esistenza, ho avuto la sensazione, apparentemente strana, di essere più vicino ai miei amici quando erano assenti di quando erano presenti. Se erano lontani provavo il forte desiderio di rivederli, ma se l’incontro si realizzava non riuscivo ad evitare un certo senso di disappunto. La nostra reciproca presenza fisica impediva un incontro pieno. Era come se sentissimo di essere, l’uno per l’altro, più di quanto potessimo esprimere. Era come se i nostri propri caratteri reali cominciassero a funzionare come un muro, dietro il quale tenevamo nascosta la nostra personalità più profonda. La distanza creata da una lontananza temporanea mi aiutava a vedere al di là del loro carattere, rivelandomi la grandezza e la bellezza che erano loro proprie, come persone, e che formava la base del nostro affetto» (Nouwen). 

Uscire da se stessi diventa così il punto focale che consente di esprimere le proprie capacità di amare e di raggiungere una vita affettivamente appagante: «La coscienza, quando si chiude in se stessa, si inaridisce e si tormenta, ma quando si apre all’amore si libera dalle catene interiori. Soltanto quando accoglie l’amore, la coscienza sboccia. Così nel circuito dell’amore, la risposta contiene più della domanda e il dono che si riceve più del dono che si fa. Amare è bello, essere amati rende migliori, a patto però che l’amore ricevuto sia amore dettato dall’ammirazione» (Guitton).   

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