La consultazione degli oroscopi, l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium occultano una volontà di dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini ed insieme un desiderio di rendersi propizie le potenze nascoste. Sono in contraddizione con l’onore e il rispetto, congiunto a timore amante, che dobbiamo a Dio solo» (n. 2116).
Essere superstiziosi a volte fa anche sprecare denaro: molte persone si affidano alle previsioni delle cartomanti, che derubano, con l'inganno, coloro che credono in queste idiozie,illudendoli con pozioni o riti magici prodigiosi. La morale tradizionale chiamava queste ultime “vane osservanze”: sono usanze a cui si attribuisce un effetto positivo. Per esempio il mangiare determinati cibi a capodanno, rivolgere particolari espressioni di augurio, incrociare le braccia quando si brinda… Ci si illude che attraverso di essi si possa orientare favorevolmente il corso della propria vita.
Essi contrastano la piena libertà dei figli di Dio e indeboliscono la fiducia in lui, anche se spesso si tratta di semplici rituali folcloristici o di norme di galateo. Grave è il caso della magia, con la quale «si pretende di sottomettere le potenze occulte per porle al proprio servizio e ottenere un potere soprannaturale sul prossimo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2117). Ogni forma di magia è un ricorso al demonio e in quanto tale una grave violazione del primo comandamento.
Secondo la psicologia la mentalità superstiziosa nega il predominio della ragione e del principio di causa-effetto, perché essere superstiziosi significa, in fin dei conti, pensare di poter manipolare il proprio futuro secondo le proprie aspettative. Mentre il cristiano si mette a servizio di Dio: «Dio può rivelare l’avvenire ai suoi profeti o ad altri santi. Tuttavia il giusto atteggiamento cristiano consiste nell’abbandonarsi con fiducia nelle mani della Provvidenza per ciò che concerne il futuro e a rifuggire da ogni curiosità malsana a questo riguardo» (CCC, 2115).