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Mercoledì, 30 Luglio 2014 12:29

Alcide De Gasperi: fiducia in dio, attenzione ai poveri

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Le carte vincenti del suo impegno

di Gabriele Cantaluppi

«Adesso ho fatto tutto ciò ch'era in mio potere, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita. Poi, quando credi di essere necessario e indispensabile, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice: ora basta, puoi andare»: sono queste parole, dette alla figlia Marianna  cinque giorni prima della morte, avvenuta il 19 agosto 1954 a Val di Sella in Trentino, quasi il testamento di Alcide De Gasperi. Convinzioni di uno statista che ha dato un intenso e fondamentale contributo alla ricostruzione dell’Italia.
La formazione intellettuale e universitaria aveva occupato la prima parte della sua vita, mettendo in luce la vocazione cristiana e politica, tanto che nel 1901, a ventun anni è eletto segretario dell’Associazione Universitaria Cattolica Trentina, convinto che «ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, ed altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo, era la mia carriera, la mia missione».
Spiritualità e politica furono due dimensioni che convissero nella sua personalità, quasi che l’una prendesse forza e ragione dall’altra, anticipando il recente monito di Papa Francesco che  «coinvolgersi nella politica è un obbligo per un cristiano... perché la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune».
Una sua figlia suora, Lucia, trascriveva pensieri tratti dalla Bibbia o da libri di santi su bigliettini, che egli leggeva prima di una difficile seduta parlamentare o una riunione del Consiglio dei Ministri, per trarne ispirazione e conforto spirituale. 
Orfano ancor giovane della madre e del fratello sacerdote don Mario, ammalatosi nell’assistere un ragazzo infermo di difterite, visse la sua esperienza formativa in un contesto trentino, di matrice culturale sospesa fra quella austriaca e quella italiana, approfondita anche negli studi all’università di Innsbruck e di  Vienna.
La storia italiana del periodo fra le due guerre e del ventennio fascista è stata tra le più drammatiche, tanto da fargli scrivere: «Che sarà dell’avvenire? Preghiamo Dio per un ordinato svolgimento e per il bene del nostro Paese». Il suo impegno gli procurerà sofferenze: vivrà l’esperienza del carcere, del distacco dalla famiglia e della malattia, fino a un umiliante processo.
Prova della sua fede radicata è stata anche la capacità, passata la bufera, di ritornare a dare il suo contributo per la ricostruzione dell’Italia.
Dopo l’armistizio, pur vivendo da clandestino per evitare rischi a sé e ai propri cari, concretizzò il suo impegno in maniere diverse a seconda delle situazioni e contribuì a formare le generazioni più giovani, convinto che, sono ancora parole del papa, «anziani e giovani sono la speranza dell’umanità: i primi apportano la saggezza dell’esperienza, i secondi ci aprono al futuro, impedendoci di chiuderci in noi stessi». Nel dialogo e nel confronto con tutti, dimostrò di non aver paura di affrontare i cambiamenti: è questo un grande insegnamento valido ancora oggi, pur facendosi promotore di valori propri, consapevole che «la politica si è sporcata perché i cristiani non si sono coinvolti in politica con lo spirito evangelico», ha ricordato Francesco.
Finita la guerra, l’Italia uscita dal ventennio fascista e nazista doveva affrontare l’offensiva social-comunista. Con la realizzazione del partito della Democrazia Cristiana, voleva immettere nella democrazia parlamentare i valori cattolici sociali, difendendo la democrazia rappresentativa e con attenzione alla classe operaia, vista come protagonista e non semplice destinataria delle scelte economiche operate da altri. Questo non gli impedì, in un periodo in cui tutte le forze politiche  mostravano spirito di collaborazione e solidarietà per le scelte che erano chiamate a compiere, di avviare accordi anche con Togliatti. 
Il suo prestigio politico come Ministro degli Esteri e successivamente incaricato di formare la prima Legislatura lo mise in contatto con i personaggi leader del mondo diplomatico europeo e  del Nord e Sud America, spingendolo anche ad affrontare la questione di Trieste, città non ancora italiana e rivendicata dalle autorità jugoslave.
Nel 1948 le prime elezioni libere  della neonata Repubblica Italiana portarono la vittoria schiacciante della DC ed egli assicurava che «la fedeltà al metodo parlamentare ci ha fatto superare molte difficoltà. Ho la speranza, per non dire la certezza che... la fedeltà al metodo democratico possa condurre al consolidamento della Repubblica Italiana», anche se bisogna dire che questo fatto bloccò la prospettiva di un pluralismo dei cattolici in politica. Nelle sue relazioni con l’estero stupì per la capacità profetica di vedere l’Europa non semplicemente come l’insieme di Paesi diversi, ma come vera e propria Casa comune, una Patria allargata nella quale convivere e collaborare, tanto da essere considerato oggi uno dei Padri della Comunità Europea.
Il suo sguardo, sempre rivolto a Dio e alla fiducia nella sua Provvidenza, lo ha orientato nelle scelte di vita personali e in quelle riguardanti l’intero Paese, permettendogli anche prese di posizione coraggiose e spesso in anticipo sui tempi, come la distanza dalle idee di papa Pacelli, che avrebbe voluto la DC più ossequiente alle direttive vaticane.
Soltanto persone come lui riescono a comprendere che «umiltà e amore per il popolo sono caratteristiche indispensabili per chi governa», sapendo che la politica cristianamente ispirata permette di edificare la “città dell’uomo”sui valori della “città di Dio”. Avrebbe certamente accolto l’invito di papa Francesco: «un buon cattolico si immischia in politica, con idee, suggerimenti, ma soprattutto con la preghiera».
 
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