«La parola del Signore era rara in quei giorni». Così si legge all’inizio del terzo capitolo del primo libro di Samuele. La Parola che aveva creato i cieli, che aveva chiamato Abramo, Mosè, i profeti e che aveva guidato il popolo eletto passo passo nel lungo cammino dell’esodo portandolo dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della Terra promessa, ora si è fatta rara. Ma se la Parola viene a mancare, ne consegue che l’umanità e l’intero creato rischiano di tornare al caos iniziale. È la Parola di Dio, infatti, che ci fa vivere e ci sostiene in vita: «In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio… / Tutto è stato fatto per mezzo di lui /e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,1-3 passim).
Il Signore segue con amore il cammino dell’uomo e le vicende della storia, non è un Dio lontano, ma un Dio vicino, un Dio che guarda, ascolta, si lascia commuovere, interviene provvidenzialmente.
Mosè ha ormai ottant’anni… Era nato in Egitto nel momento più duro della schiavitù, quando il popolo ebreo era perseguitato a morte. Il Faraone, infatti, aveva dato ordine di uccidere tutti neonati maschi delle donne ebree. Miracolosamente scampato all’eccidio per la pietà della madre e la compassione della figlia stessa del Faraone, Mosè era cresciuto a corte, ricevendo una regale educazione, onori e ricchezze. Giunto all’età di quarant’anni, sentì in cuore il desiderio di liberare i suoi fratelli dalla schiavitù, ma la sua impresa fallì. Rifiutato da loro stessi e perseguitato dal Faraone, fuggì pieno di paura, prendendo la via del deserto. Come un povero profugo, si guadagnò da vivere pascolando il gregge di Ietro.
«Questa è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli» (Gen 37, 2). Inizia così, inserita in una famiglia, la coinvolgente e stupefacente “storia di Giuseppe” (Gen 37-52), luminosa figura di Cristo, venuto sulla terra per cercare e salvare i suoi fratelli. Nel giorno di Pasqua, l’abate medievale Guerrico d’Igny rivolgendosi ai suoi monaci parlò loro proprio di Giuseppe e, quasi sentisse le loro proteste – «Ma che cosa c’entra? Che cosa c’è in comune tra Giuseppe e la gioia di questo giorno di risurrezione?» – disse: «Un uovo o una noce, fratelli, vi ho offerto; rompete il guscio e troverete il cibo. Si squarci Giuseppe e si troverà Cristo, l’Agnello pasquale».
Le comunità guanelliane del Canton Ticino in Svizzera e alcune lombarde della Provincia Sacro Cuore e delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, hanno partecipato, il 27 gennaio, alla conclusione dell’anno centenario dedicato alla consacrazione episcopale di Mons. Aurelio Bacciarini. Lo hanno fatto in modo particolarmente solenne con una Santa Messa presieduta, nel Santuario del Sacro Cuore a Lugano, da mons. Valerio Lazzeri, vescovo diocesano, e concelebrata da don Marco Grega, superiore della Provincia Sacro Cuore, da don Bruno Capparoni, direttore del Centro Studi Guanelliani e da altri 20 sacerdoti dei quali 17 guanelliani e tre diocesani. Una liturgia eucaristica che ha visto anche la partecipazione di molte consorelle guanelliane, tra le quali la consigliera generale suor Antonietta Ripamonti, di alcuni Cooperatori Guanelliani e di numerosi “ospiti” delle case svizzere: Maggia, Tesserete, Riva san Vitale, e italiane: Como, casa-madre, Casa di Gino, Santa Maria di Lora, Cassago, Nuova Olonio, Milano. Riservata, ma numerosa anche la presenza delle Teresine, l’Istituto secolare, fondato a Lugano da mons. Bacciarini.
Monsignor Bacciarini promosse costantemente i pellegrinaggi, ritenendoli «uno storico trionfo di fede e di pietà», e anche una forma più efficace di apostolato moderno e parte importante del suo ministero episcopale.
In appendice alla sua Lettera, l’autore dell’epistola agli ebrei invita il cristiano a uscire dal suo “accampamento”, dal perimetro della propria vita per avviarsi sempre di più verso Gesù, la sorgente della nostra speranza. In un grappolo di raccomandazioni la Lettera elenca le opere di misericordia, sia corporali che spirituali, pagine bianche di un diario da scrivere con generosità e sempre con un piede alzato per avvicinare e aiutare il povero.
La morte oggi ha molte facce: la gran parte ordinarie, come il morire di vecchiaia e malattia. Un certo numero di morti però è segnata dal clamore e dalla tragedia e su di esse si riempiono le pagine dei giornali. Ad esempio, recentemente una madre, angosciata e disperata, si è procurata dosi di sonnifero, le ha date ai propri due figli e, una volta assopiti, ha iniettato loro un potente veleno uccidendoli. Poi si è tolta la vita.
L’enciclica Humanae vitae ha segnato una grande novità nella vita della Chiesa: è la prima volta che un documento pontificio viene seguito e commentato dalla stampa mondiale con tanta attenzione e spirito critico – trapelano perfino anticipazioni e previsioni fin dai mesi precedenti – ed è la prima volta che il papa è oggetto di vignette umoristiche e soprattutto che il mondo cattolico si divide pubblicamente, clero compreso, nella ricezione del documento.
Già alla fine del mese di ottobre e ai primi di novembre, per tutti c’è un appuntamento fisso: la visita ai nostri defunti. In quella circostanza, la vista di volti familiari aprirà il panorama della memoria. Volti, ricordi, esperienze, date, contemplate senza fretta, susciteranno emozioni e sentimenti di un passato sepolto negli anni, ma vivo di speranza come il bulbo di ciclamino in attesa di primavera.