Il campo e il tesoro nascosto. Quanti ricordi d'infanzia fanno affiorare queste immagini? La storia di Pinocchio e del «campo dei miracoli» dove si seminano zecchini, anzitutto; e poi L'isola del tesoro di Stevenson; o magari - ed è quel che più da vicino ricorda a me, quel che sempre mi è rimasto più profondamente impresso - la storia di quello sciocco contadino che aveva sepolto tutto il suo avere in un campo, ma fu visto da un altro che glielo rubò. Disperato, andava lamentandosi e piangendo; finché un suo conoscente lo apostrofò: «Ma perché ti lamenti tanto? Sotterra nel campo una pietra, e fingi che sia il tuo tesoro, sempre lì, intatto; per quel che ti serviva, sarà esattamente la stessa cosa». Che poi ricorda molto da vicino la parabola dei talenti, e del servo che aveva nascosto suo invece di farlo fruttare. Ma l'uomo che trova il tesoro, nella parabola di Gesù, è pieno di gioia: lo nasconde di nuovo, quindi vende tutti i suoi averi, compra il campo e si gode il frutto della sua fortuna e della sua cautela. Sovente Gesù dà consigli come questi; sovente il linguaggio è quello di chi rivolge a gente un po' ruvida, furba, che conosce le durezze della vita, non si fa troppe illusioni, non si lascia scappare l'occasione. Che cosa si fa se si trova un tesoro? Lo si rinasconde, quindi si trova il sistema di appropriarcene legalmente. Niente disonestà, ma nemmeno leggerezza.
A ben comprendere questa parabola bisogna por mente a due problemi. Come trova il tesoro, il fortunato che poi se ne approprierà comprando il campo e rischiando su di esso tutti i suoi averi? E chi ce l'aveva nascosto proprio lì, e perché? Alla prima domanda si risponde agevolmente immaginando, appunto, il mondo contadino del tempo di Gesù. Il «tesoro» si trova lavorando il proprio terreno, cioè impegnandoci nella vita. Non è nemmeno detto, e non è necessario immaginarsi, che tale tesoro sia un ripostiglio di metalli o di oggetti preziosi. Potrebbe essere, poniamo, la speciale fertilità di quel campo, la scoperta della coltura e del metodo di lavoro ad esso più adatti. Ma chi ha sepolto il tesoro nel campo? Uno al quale esso non interessava? Un avaro sciocco, che intendeva conservarlo per sé? Oppure la mano provvidenziale di Dio? Sul piano propriamente allegorico, sì la terra da coltivare può essere
essenzialmente quella del proprio corpo (il fango del quale è impastato) e della propria esistenza. Ma i tesori che si trovano in questo tipo di campo sono di solito sporchi di terra, hanno un'apparenza dimessa e molto poco preziosa: bisogna conoscerli, studiarli bene, ripulirli dal fango e dalle zolle per accorgersi di che cosa si tratta.
E non è detto che il «tesoro» sia tale per tutti.
Esso è, molto semplicemente, quello che si cerca, quello di cui si ha bisogno. Può anzi essere magari una piccola e povera cosa, che però costituisce anche la chiave della propria esistenza.
Il regno dei cieli, questo regno dei cieli, è qualcosa di molto simile a quel che nel linguaggio di tutti i giorni si definirebbe la propria vocazione, il proprio posto nel mondo e la capacità di accettarlo con gioia per quel che esso è. Non si direbbe che, parlando di questo regno dei cieli, Gesù alluda a qualcosa di particolarmente elevato o soprannaturale: si ha l'impressione piuttosto che egli stia parlando di qualcosa di conseguibile qui, su questa terra, nella nostra vita. Una chiave della serenità, della felicità, della pace con se stessi e con gli altri. Spesso, nella nostra riflessione sul cristianesimo, diamo forse eccessiva importanza ai «grandi» modelli. Intendo dire che senza dubbio il cristianesimo è una religione eroica: la misura del Cristo sulla croce, della testimonianza dei martiri, della vittoria sulla morte, è quella fondamentale e privilegiata di essa. Eppure, il Signore conosce le nostre debolezze e non ci vuole tutti eroi; di più, egli non ci vuole infelici su questa terra. Ecco perché la volontà di cercare e di trovare il regno dei cieli in questa vita e su questa terra, utopistica ed eretica volontà se tradotta in termini di realizzazione storica collettiva, diviene legittima e necessaria per quanto riguarda la nostra esperienza e il nostro modo di essere e di agire. Il tesoro nascosto nel campo è la serenità, la capacità di accettarci e nel contempo la volontà di migliorarci. Ogni campo, anche il più misero e sterile, ha un tesoro nascosto di questo tipo. Il punto è che non è sempre facile trovarlo.
Continuando con la lettura del Diario di un dolore, nel terzo quaderno sulla fiducia, Lewis in questo sofferto percorso riconosce così un fondamento, base di ogni suo dire, anche della protesta e del dolore. Un fondamento, tuttavia, che non è a misura d’uomo. Come il sorriso della Gioconda analizzato da P. Ricœur, il fondamento è presenza simbolica dell’assente: il sorriso della Monna Lisa è così intenso e significativo perché ricorda la madre del pittore, assente e insieme presente in quel particolare sorriso, nella sua espressione e nei suoi colori, che ci parlano in qualche modo di lei, se non altro nella nostalgia che evoca.
Entrando in merito al contenuto del Diario di un dolore di Clive S. Lewis, il primo capitolo (il primo quaderno) inizia dando espressione ai sentimenti prevalenti che occupano l’animo dello scrittore, il dolore, la paura, la rabbia, la tristezza. Sono i sentimenti legati allo smarrimento della speranza, che la morte viene a sanzionare: «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione».
Lo scrittore inglese Clive Staples Lewis, noto per le Cronache di Narnia, nel libro Il diario di un dolore per la perdita della moglie, esprime i molteplici aspetti del lutto in forma esemplare, anche sotto il profilo letterario, non solo per la sua capacità di descrivere quanto si trova nell’intimo. L’insegnamento più prezioso che emerge da queste pagine è la modalità di svolgimento del libro, capace di rendere il limite il mezzo indispensabile per il compimento dell’impresa. Il limite della parola, ma soprattutto dello spazio riservato alla scrittura.
Le ricerche compiute circa le fasi della elaborazione del lutto confermano la verità di un’affermazione di Nietzsche: «Chi ha un perché nella vita può sopportare quasi ogni pena», un aforisma che V. Frankl riprende significativamente come elemento fondamentale per la sopravvivenza nell’esperienza autobiografica descritta nel libro Uno psicologo nei lager. Frankl aveva notato che la possibilità di sopravvivere nelle «situazioni estreme» non era data in primo luogo dalla costituzione fisica, dalla robustezza o dalle forze a disposizione, ma dalla capacità «sapienziale» di poter trovare un significato in ciò che si stava vivendo. Ciò forniva forza e motivazione per affrontare le prove più terribili.
Questa fase che, come precisato, non è affatto un esito necessario, nasce da una sorpresa. Il soggetto ha perso tutto, si trova completamente impotente, si rende conto con amarezza che non può gestire più nulla della sua vita come prima, l’unica cosa certa è, oltre alla crisi, alla malattia, al problema che lo assilla, il senso di vuoto sconfinato. È a questo punto che stranamente da quel vuoto possono sorgere nuove inaspettate possibilità di vita, spesso mai intraviste prima: quel vuoto, quella perdita può diventare anche una liberazione, riconoscendo l’ingresso nella propria vita di un tipo di esperienza mai sperimentata prima.
Il colpito si rende conto di esistere ancora, è toccato dal fatto di non essere solo, di potersi ancora servire dei suoi sensi. Su di lui ricadono un gran numero di percezioni, di esperienze, di cose vissute che sempre più lo portano a concludere: “Solo ora riconosco!”. Io sono, io posso, io voglio, io mi accetto, ora vivo con la mia peculiarità individuale. Questa fase è perciò individuata come accettazione; non vivo contro, ma con la crisi. È accettazione, che non significa rassegnata rinuncia, ma che può essere intesa già come condizione rappacificata. L’accettazione, non una risposta affermativa di consenso. Nessuno può accettare di buon grado perdite pesanti, ma si può imparare, nell’elaborazione della propria crisi, ad accettare l’inevitabile… l’accettazione è quindi il superamento dei limiti della propria coscienza, che ora si amplia inaspettatamente. La persona è quindi divenuta capace di accettare.
Nasce una nuova ed impensata fase, come si diceva, che paradossalmente libera altre energie e apre ad altri desideri, soprattutto si cerca di valorizzare quello che sta capitando nei confronti di altri. In altre parole proprio attraverso la sciagura capitata ci si rende responsabili verso altre persone attraversate dalla stessa esperienza e si capisce che si potrebbe essere importanti per loro, che questo periodo della vita, non è inutile, ma ha insegnato qualcosa che ha marcato per sempre la persona. Anzitutto ha accettato se stesso come un “diverso”, diverso cioè dai criteri che lui stesso aveva posto come significativi per la vita; ora sperimenta che una condizione impensabile libera nuove energie e possibilità anche se dovrà rinunciare per sempre a quelle del passato.
I colpiti riconoscono che non è affatto decisivo ciò che si possiede, ma quello che si fa con ciò che si ha! Direttamente ed indirettamente si sviluppa nei colpiti un capovolgimento, una ristrutturazione dei valori e delle norme sulla base di esperienze rielaborate, non all’esterno, ma all’interno del vigente sistema di norme e valori. Valori e norme restano inalterati, ma si strutturano in modo nuovo attraverso l’ottica modificata.
Questo stadio sorge in stretta connessione con la dolorosa e combattuta presa di consapevolezza della fase precedente: lo sguardo è posto fuori da se stesso, teso a riconoscere cosa si potrebbe fare per un altro e anche come comunicare la propria esperienza; è una forma di conversione, ciò che si vorrebbe buttare viene scoperto come una ricchezza imprevedibile che comunque cambia la vita.
È questa ad esempio l’esperienza di C. Imprudente, fondatore a Bologna dell’associazione “Accaparlante”, affetto da grave handicap motorio e di parola. In un libro autobiografico (Vita! Appunti per una cultura dell’handicap), egli indica la svolta avvenuta nella sua esistenza, passando dalla fase di protesta verso Dio e la vita a motivo del proprio handicap alla fase della solidarietà; questa svolta è avvenuta quando ha trovato accanto a sé delle persone che lo hanno ascoltato con affetto ed interesse coinvolgendolo nei loro progetti. In tutto ciò egli non è fisicamente guarito, ma si è scoperto tuttavia felice di vivere. È come se il problema che assillava la persona, pur sempre più presente e terribilmente operante, non costituisse più il fuoco dell’attenzione della persona, perché altre realtà ne hanno preso il posto, o per meglio dire si tratta sempre della stessa cosa ma che ha portato verso altre direzioni, progetti idee, attività.
È l’ultima fase del cammino.
Certo, conclude la Schuchardt, pochi handicappati sono arrivati a questa fase: ma anche pochi non handicappati. Stupisce rilevare come il fattore decisivo e discriminante in questo cammino non sia affatto costituito dalla presenza o meno della salute fisica o dall’aver risolto il problema: le possibilità di giungere alla fase della solidarietà sono uguali in tutte le situazioni, in chi ha avuto molto e in chi non ha avuto nulla.
La persona si trova a confronto con qualcosa di inaspettato e di critico, senza quasi rendersene conto all’inizio. La prima istintiva reazione è di negare tutto ciò cercando di continuare il corso della vita ordinaria cui si è troppo abituati. Si fa di tutto per non vedere quanto è capitato. È una fase che può durare da pochi minuti (nel caso della notizia della morte improvvisa di una persona cara) a giornate, settimane o mesi. Si cerca di prendere la distanza con ciò che è capitato, di isolarlo, di non permettere che intacchi il corso abitudinario della propria vita. È come se si trattenesse il respiro per rendersi conto se quanto sta capitando sia un sogno o la realtà.
È evidente che però non si può non fare i conti con quanto accaduto, la malattia progressiva, propria o di una persona cara, la notizia di una morte improvvisa, l’abbandono di un familiare, una grave perdita, lavorativa, finanziaria.
A questo punto si lotta perché non sia così, si portano argomenti e motivazioni per non arrendersi all’evidenza; questa modalità è una maniera di non perdere del tutto la speranza, e ci si aggrappa a qualunque cosa possa mantenerla viva. Un elemento importante in questa fase, ma comunque in tutte le fasi, è che la persona non si isoli, non si chiuda nei suoi pensieri ed elaborazioni; oltre che un possibile sostegno questo rapporto può alimentare la fiducia ed il confronto.
Nonostante tutto, parlare della situazione reale costituisce un aiuto illuminante, in quanto mette in relazione la constatazione razionale e lo stato emotivo. Qui la disponibilità di chi è colpito rappresenta una premessa decisiva: egli deve inviare il segnale di voler parlare in modo chiarificatorio; solo così è possibile la scoperta personale della verità. Essa può essere accolta, nel senso di “parlarne”.
Questa fase segna il passaggio alla presa di contatto con le emozioni. Se finora la persona cercava nuove informazioni, discuteva sulle eventualità di poter padroneggiare la nuova situazione, ora si trova impotente di fronte all’evidenza del problema e a questo punto emerge la protesta, la rabbia, la ribellione nei confronti di quanto accaduto, e insieme diventa un grido di supplica di non vedersi portare via ciò che ha di più prezioso per la propria vita. La persona si sente come presa di mira dalla sventura che si è accanita contro di lei ed esplode con il grido di sofferenza e protesta ben conosciuto e comprensibile: “perché tutto questo è capitato proprio a me? Cosa ho fatto di male?”. Questa rabbia può esplodere all’improvviso nella maniera più inaspettata e sorprendente ed avere perciò con facilità esiti drammatici ed imprevedibili, fino alla tragica conclusione con il suicidio.
In questo passaggio delicato dal razionale all’emotivo è ancora più decisivo che la persona non sia lasciata sola, se essa trova un riscontro anche aggressivo verso qualcuno ciò può aiutarla ad elaborarlo con più efficacia. La rabbia è infatti una forma di reazione, di forza e anche di speranza, per questo l’aggressività non va mai spenta.
Non potendo negare l’evidenza, il soggetto si butta disperatamente a provare ogni possibilità in cui possa trovare una soluzione al problema, utilizzando tutte le risorse a disposizione, “naturali” (si fanno passare tutti i tipi di medici, cure medicinali convenzionali e alternative, pratiche e consulenze terapeutiche) e “soprannaturali” (pellegrinaggi, visite a santuari, e a santoni, voti di vario genere, offerte)…
Anche questo se da un lato può positivamente tenere impegnata la mente e l’affetto nel perseguire queste strade è sempre importante che si abbia qualcuno accanto, soprattutto quando giunge il momento tremendo della delusione, con la rassegnazione di doversi arrendere ad un nuovo livello, di fronte all’evidenza che non c’è speranza di guarire, che non sarà mai più come prima…
Esaurite tutte le possibilità a portata di mano, anche la persona si trova esaurita, forse tanto più quanto più si era spesa e consumata (anche economicamente) per trovare una soluzione. Nel rinunciare e nella paura per le minacciose rinunce future si delinea l’abbandono definitivo di tutti i tentativi di negare le perdite irrecuperabili, accompagnato da una sconfinata tristezza, la cosiddetta afflizione: essa funge da preparazione ad accettare il destino, contiene l’atteggiamento dell’inversione di tendenza, del raccoglimento interiore e dell’incontro con se stessi. Da questo ritrovarsi scaturisce la libertà di prendere le distanze da un’esperienza subita e di organizzare le future azioni necessarie. È l’inizio dello stadio finale. Da questo altre fasi vengono sperimentate, all’insegna del ritorno alla vita.
Il confronto con il tema della morte, tra i suoi molteplici e variegati aspetti, pone in particolare, a chi resta, l’importanza e la necessità di rielaborare l’esperienza di perdita della persona cara, imparando a lasciarla andare. È un atteggiamento obiettivamente difficile perché paradossale, antitetico alla tendenza spontanea a trattenere le persone amate, per non perderle.
Il momento della morte improvvisa della persona cara diventa nello stesso tempo il riconoscimento di una verità dolorosa: quanto l’altro fosse diventato parte di noi si può riconoscerlo purtroppo per lo più troppo tardi, dallo strappo interiore provocato dalla sua scomparsa. Ogni relazione rivela un aspetto, di sé e dell’altro, differente, e irripetibile. Tale unicità viene ricordata in maniera drammatica dalla sua scomparsa, come nota con acume Lewis: «Ora che Charles è morto, non vedrò più le reazioni di Ronald a una tipica battuta “da Charles”. Non è affatto vero che ora che Charles se n’è andato Ronald è più mio, in quanto è tutto “per me”; la verità, semmai, è che ora ho meno anche di Ronald…».
Spesso si apprezza il valore della persona amata solo quando ci è stata tolta, scoprendo in essa cose fino ad allora inaccessibili. Per questo la morte della persona amata diventa anche la propria morte, come nota Pirandello nella celebre Lettera alla madre. In realtà non è lei, ma è lui a essere morto perché non potrà più contare sul suo affetto, che gli dava calore e conforto. La madre invece continua a vivere nella mente e nel cuore dello scrittore.
Nello stesso tempo, la morte dell’altro può rivelare anche un aspetto dell’identità di chi rimane, un aspetto fino a quel momento ignoto a lui stesso, e conosciuto solo in forza di quell’evento tragico. Sono alcuni dei tanti aspetti paradossali del confronto tra morte e vita: una parte di noi muore alla morte degli altri, ma anche una parte di essi sopravvive in noi, e ci ricorda il nostro strutturale essere-in-comunione-con-loro.
Il legame inscindibile di morte e vita
I tentativi di rimozione della morte, speculativi, psicologici o pratici sono per lo più legati al fatto che essa viene a negare il senso che caratterizza la vita, e che è indispensabile per continuare a vivere. L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi che sa di dover morire; gli animali periscono, solo l’uomo muore. L’uomo è l’unico essere che avverte con acutezza questo stridente contrasto, la sua tensione alla vita e insieme la forza inesorabile della morte. È la caratteristica peculiare dell’angoscia vista sopra: essa nasce da una richiesta di pienezza, da una protesta di fronte al «furto» di essa compiuto dalla morte. Eppure l’angoscia, la domanda, la protesta non potrebbero sorgere se quella pienezza, quel senso, non fossero in qualche modo noti. Il negativo si mostra come pienezza mancata, e insieme come sua richiesta, motivata da una esperienza, da un sapere in qualche modo dato, anche se nel rinvio e nell’assenza espresse da un posto vuoto: «La stessa coscienza dell’estrema finitudine, lo stesso sentimento angoscioso della morte non potrebbero darsi, se non sullo sfondo d’una tensione che nasce dall’infinito e che, nell’immediato, deve tradursi appunto nello scandalo del silenzio irreversibile, nell’orrore o nella protesta che paventa il nulla» (V. Melchiorre).
È questa tensione a mettere in cerca di una possibile risposta, animati da una luce conosciuta. La perdita dell’amico, del genitore, di chi si è amato, non cancellano il valore e l’intensità di ciò che si è costruito insieme. Tale valore si rivela tuttavia sempre nel segno, nel dettaglio, lasciando la nostalgia di una pienezza mai pienamente data.
L’affermazione dell’uomo in termini di essere-per-la-morte, resa celebre da Heidegger, non può dunque essere associata al puro nulla. In tal caso infatti anche lo stesso interrogare svanirebbe. Anzi, non potrebbe neppure porsi. Il nostro pensare e agire è sempre all’interno dell’essere: la nozione del nulla lo presuppone. È lo stesso Heidegger a riconoscerlo: «Se, con una spiegazione semplicistica spacciamo il niente per ciò che è, rinunciamo troppo precipitosamente a pensare».
La morte dunque non solo può essere detta a partire dalla vita: essa anche parla alla vita, per questo è così dolorosa. In particolare ricorda che l’esistenza, nostra come quella di coloro che abbiamo amato, non può essere posseduta. Accettare questa precarietà non significa arrendersi al non senso, ma accogliere un sapere altro, di cui l’uomo non è la misura. La ricerca di senso rimane così continuamente attraversata dal paradosso: solo guardando in faccia alla morte, solo non possedendo, solo lasciando andare si può fare esperienza di vita e di presenza a noi dell’assente, sotto altra forma.
Questo è il significato proprio del lavoro del lutto.
di Giovanni Cucci
Ogni negazione, e in modo particolare la negazione della morte, parla pur sempre di ciò che nega e riafferma in forma più inquietante la sua innegabile presenza. È la radice di quello che Heidegger chiama «l’angoscia di morte», lo spaesamento di fronte al nulla, che si cerca disperatamente di riempire con l’attivismo, affrontando problematiche concrete, visibili e quindi in qualche modo gestibili. Il non sapere su questo tema è in realtà un non-voler-sapere, una difesa dall’angoscia e insieme l’affermazione della sovranità della vita: «Sono dei tentativi di sapere, oppure dei semplici modi di non voler sapere ciò che già si sa?» (Gadamer).