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Mercoledì, 14 Marzo 2012 10:36

Nazareth scuola di silenzio, lavoro e preghiera

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di Gabriele Cantaluppi

“Santa e dolce dimora/dove Gesù fanciullo/ nascose la sua gloria./ Giuseppe addestra all’umile/arte del falegname/ il Figlio dell’Altissimo./ Accanto a lui Maria/fa lieta la sua casa/ di una limpida gioia”: con queste parole la liturgia descrive la vita quotidiana nella casa di Nazareth. è messa in risalto, quasi posta al centro, la figura di Giuseppe, come padre ed educatore di Gesù, a cui rimane però rivolta tutta l’attenzione.
“Non temere di prendere con te Maria, tua sposa” gli aveva detto Gabriele, costituendolo così padre di Gesù, con tutti i diritti e doveri di questo ruolo. Se Maria, parente di Elisabetta e di Zaccaria, apparteneva alla stirpe di Aronne, Giuseppe invece era discendente di Davide: Gesù, divenendo suo figlio adottivo, acquistava tutti i diritti di un figlio carnale ed era a pieno titolo accolto  nella stirpe di Davide, compiendo così la promessa fatta.
Al museo del Louvre si trova un quadro di Georges de la Tour, un pittore francese del Seicento, che rappresenta Giuseppe intento di notte al suo lavoro di falegname; accanto a lui Gesù gli fa lume reggendo una candela accesa. Nella penombra della scena è pienamente illuminato il volto dell’adolescente, di cui colpisce lo sguardo sereno e affettuoso rivolto al padre che, pur intento a praticare un foro in una trave di legno, alza gli occhi per fissarli in quelli del figlio.

Presso gli ebrei l’educazione dei figli era una delle più gravi responsabilità del padre di famiglia, soprattutto nell’età della pubertà, sia nel campo religioso che negli altri legati alla vita pratica quotidiana, professionale e culturale. Era loro ben nota l’esortazione del libro dei Proverbi: “Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non disprezzare l’insegnamento di tua madre, perché saranno corona graziosa sul tuo capo e monili per il tuo collo” (Prov 1.8).
Particolare importanza veniva data anche all’educazione professionale, perché i lavori si tramandavano di padre in figlio nella cerchia delle tradizioni familiari: un rabbino sentenzierà: “Chi non insegna al proprio figlio un lavoro, lo educa a diventare un brigante”.
Da Giuseppe Gesù apprese l’arte del falegname, tanto che i concittadini di Nazareth, dove aveva trascorso la maggior parte della vita, meravigliati del suo insegnamento dicevano: “Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname?”.
Le conoscenze psicologiche attuali sottolineano l’importanza della figura paterna nella maturazione della persona dei figli: un’impronta che segnerà tutta la loro vita. Pur conoscendo poco della vita di san Giuseppe, molti tratti di lui ci vengono offerti da quella di Gesù: come Egli è espressione visibile del volto del Padre celeste, è anche il ritratto più fedele del suo padre terreno.
Questa reale paternità, anche se non fisica, di san Giuseppe è anche il fondamento della sua continua protezione sulla santa Chiesa, significata e rappresentata nella santa Famiglia di Nazareth. Poteva ben a ragione affermare Giovanni Paolo II: “Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell'insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all'intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele” (Redemptoris Custos, n. 30).
Due volte San Luca nel suo Vangelo evidenzia che Gesù “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”, esprimendo così la piena umanità di Gesù e forse in polemica con le prime eresie cristologiche volte a fare di questa umanità una semplice parvenza.
Ma possiamo anche leggervi in filigrana il ruolo importante di Giuseppe a fianco della maturazione psicologica e spirituale del Figlio, che egli aveva ricevuto nella fede, aveva concepito spiritualmente, adottato e  accolto al momento della nascita e infine accompagnato nella sua crescita.
Sempre le scienze dell’educazione sottolineano lo sviluppo graduale della percezione che il bambino ha di un’identità distinta dalla sua fino a quando questa percezione diventa consapevole creando un atteggiamento di risposta, quasi una nuova nascita. è il giorno in cui per la prima volta risuona l’esclamazione: “Papà”.
Che emozione deve aver provato san Giuseppe quando la prima volta si è sentito chiamare con questo nome: “Abbá”, carico di affetto e di riconoscenza. Solo chi ha provato nella sua esistenza questi sentimenti, può comprenderli negli altri.
Il dipinto di Pietro Ivaldi, posto sul nostro calendario di quest’anno al mese di marzo, risente dell’iconografia classica e stereotipa del Santo: più realistico è il dipinto citato più sopra di Georges de la Tour.
Vi appare un vecchio falegname, teso sul suo lavoro, davanti a Gesù, il Figlio di Dio fattosi carne. Ambedue i personaggi hanno i tratti e le vesti dei figli del popolo: sotto le unghie della mano sinistra di Gesù, in quelle di Giuseppe e nelle pieghe della sua pelle ruvida si notano delle linee di sporco. è lo sporco onesto di chi si guadagna il pane con la sua fatica e viene così resa icasticamente la realtà dell’Incarnazione.
Gli evangelisti non ne fanno accenno,  ma non è fantasioso ritenere che Giuseppe, proprio per assicurare il mantenimento alla propria famiglia, abbia dovuto farsi una clientela, sia a Nazareth che durante la permanenza di un anno,  forse anche due, nella fuga in Egitto.
Il ruolo di Giuseppe, protettore della Santa Famiglia, ci tocca da vicino anche ai nostri giorni, in cui l’educazione dei giovani e il ruolo genitoriale si è fatto difficile.
L’autorità, da non confondere con l’autoritarismo arrogante che soffoca la libertà e la maturazione del singolo, è un servizio le cui finalità sono lo sviluppo della personalità, la promozione del bene comune e la sicurezza economica e affettiva della famiglia.
“Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” sono le parole con cui Maria, rivolgendosi a Gesù ritrovato nel tempio dopo tre giorni di ricerche, sembra quasi sottolineare l’autorità di Giuseppe nella famiglia, anteponendolo a se stessa.
Ma altrettanto decisa, anche se rispettosa, è la risposta di Gesù, l’autorità terrena non deve mai ostacolare la volontà di Dio: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio”, anche se nella famiglia essa è sua espressione: “Scese, dunque, con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso”.
Costituiscono un programma educativo le parole di Papa Benedetto XVI: ”è nella famiglia che l’uomo scopre la sua relazionalità, non come individuo autonomo che si autorealizza, ma come figlio, sposo, genitore, la cui identità si fonda sull’essere chiamato all’amore, a riceversi da altri e a donarsi ad altri”.

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