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Attenzione

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Mercoledì, 08 Febbraio 2012 12:53

Ogni figlio è un dono

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di Gabriele Cantaluppi

L’archeologia e le scienze ad essa connesse hanno contribuito alla ricostruzione grafica del grandioso tempio di Gerusalemme, iniziato nel quarto anno del suo regno da Salomone, la cui costruzione si protrasse per sette anni e al termine dei quali si svolsero con grande solennità i riti di consacrazione al culto.
Come bene esprimeva la preghiera di dedicazione, il tempio richiamava l’alleanza che Dio aveva concluso con il suo popolo, che in tal modo era diventato eredità sacra a Lui: “Tu, Signore, mantieni l’alleanza e la fedeltà verso i tuoi servi che camminano davanti a te con tutto il loro cuore”. A quest’epoca risale anche il rito della presentazione al tempio, col conseguente obbligo per ogni ebreo di andare ad offrire al Signore il proprio primogenito maschio: era un modo per dire “Questo bambino non mi appartiene. E’ tuo, Signore”.  E per riaverlo, con un gesto simbolico, come per riscattarlo, si offriva in sacrificio una coppia di giovani tortore o di colombi. Forse uno strascico di tale usanza era rimasto nella devozione popolare in uso fino a qualche decennio fa, quando la donna che aveva partorito un maschio o una femmina, si recava alla chiesa e, accompagnata dal sacerdote, rendeva grazie a Dio per il dono della nuova creatura.

Nel culto cristiano questo rito ebraico è andato perso, ed è un danno perché, inserito nella catechesi del Battesimo, avrebbe potuto essere molto educativo. Soprattutto ai nostri giorni  in cui diventa sempre più importante ricordare che il proprio figlio, ogni figlio, non ci appartiene. Egli appartiene a Dio perché, propriamente parlando, i genitori non danno la vita, ma la trasmettono.

Mistero

Anche Giuseppe e Maria giungono al tempio e offrono il loro bambino, secondo l’usanza. Ed ecco che Simeone, mosso dallo Spirito Santo, sembra metterli in guardia: egli dirà loro: “Attenzione! Non solo questo bambino non è  vostro, ma è di Dio; ancora di più, egli è per il mondo, luce per illuminare i popoli pagani”. Il santo vegliardo rivela dunque qualcosa di essenziale ai due genitori, e l’evangelista Luca sottolinea che essi sono meravigliati.  Cosa facilmente comprensibile, tanto questo avvenimento supera le loro previsioni. E anche quando Simeone profetizza a Maria che il destino di suo figlio non è quello che lei si aspetta, che è invece tutt’altra cosa (“egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione”), ella non arriva a comprendere pienamente la portata di questo annuncio perché un bambino è sempre rivestito di mistero, soprattutto quando si tratta del Bambino Gesù. Come non avere davanti agli occhi lo stupore di due genitori al vedere per la prima volta la loro creatura, quasi increduli che sia veramente frutto del loro amore e della loro carne, emozionati per aver generato una vita!

Figli per se stessi?

Questi riti, a noi che viviamo in altri tempi,  possono sembrare un po’ antiquati e sorpassati. Ma resta qualche cosa che la nostra civiltà odierna deve assimilare, se si vuole essere veri genitori, evitando gli errori che si constatano spesso. A cominciare dal più grosso: discutendo con i fidanzati che si preparano al matrimonio, non è raro sentir dire che “vogliono” dei figli, come se  fossero considerati un elemento di fortuna e di conforto, una compagnia, o addirittura un mezzo per consolidare, rafforzare una coppia vacillante. Procreare bambini per se stessi, per il proprio uso e consumo!  La vita si incaricherà molto presto di disilludere. E’ molto importante avere fin dall’inizio il vero senso dell’esistenza. I figli non sono un diritto, ma un dono; non si pretendono, ma si accolgono.
Ricordiamolo sempre: non si dà la vita, la si trasmette. Le cellule genetiche che i genitori trasmettono, vengono da prima di loro. Sono un’ereditarietà si dice, prima ancora che un’eredità: cioè un passaggio da una persona all’altra iscritto nella nostra stessa natura umana.  Il colore dei capelli e degli occhi, vengono da più lontano che da noi. La stessa vita è stata donata anche a noi, e noi passiamo la staffetta. Non solo sul piano fisiologico e genetico, ma su tutti i piani; una certa saggezza, una certa cultura, un certo modo di vivere, di affrontare il mondo, un certo stile di vita familiare: tutto ciò si prolunga nei posteri, ma viene da prima di noi. Più si invecchia, più ci si rende conto di avere ricevuto per eredità un mucchio di cose. La vita è dunque qualche cosa che  si riceve e che poi si trasmette: ci è stata data da Dio e, dopo tutta la nostra storia personale, la riconsegneremo a Dio.
Oggi sempre più i figli mostrano lati imprevisti e forse anche un po’ misteriosi. In un clima culturale in cui le coppie sono rese molto più fragili, nonostante i figli abbiano ricevuto molto dei loro genitori negli aspetti fisici e educativi, essi rifiutano l’atteg­giamento di dover ricevere, senza operare una scelta personale, un modo di vedere la realtà e perfino una fede. D’altra parte c’è anche, nell’universo familiare reso così fragile,  una specie di paura di fronte al mondo dei giovani: basti pensare alle distanze che gli adulti prendono da alcune manifestazioni scolastiche o di piazza giovanili che, al di là di certi eccessi, a volte nascono da motivazioni condivisibili. Si ha l’impressione che i due mondi, degli adulti e dei giovani, vivano come un composto chimico i cui elementi non interreagiscono per formare una realtà nuova.
Nel suo messaggio per la Giornata della Pace di quest’anno, Benedetto XVI auspicava per i genitori verso i loro figli  una “ presenza che permetta una sempre più profonda condivisione del cammino, per poter trasmettere quell’esperienza e quelle certezze acquisite con gli anni, che solo con il tempo trascorso insieme si possono comunicare”.

Come Giuseppe e Maria dovremmo imparare a “stupirci” davanti ad ogni figlio, trasformando le relazioni familiari in un progetto di vita. Se lo stile di relazioni che il bambino vive è quello dove uno sospetta dell’altro, dove si vive in uno stato di conflitto permanente, dove si ripiega su una cellula familiare simile a un ghetto senza apertura al mondo, il bambino adotterà gli stessi modi di pensare, di giudicare e di porsi nel mondo.  Al contrario occorre essere una coppia aperta, solare, unita. Occorre avere cura degli altri, una certa generosità: tutto ciò a sua volta viene trasmesso, e non solo i cromosomi.
Allora ogni figlio susciterà in chi lo accosta la gioia della profetessa Anna, che “sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusa­lemme”.

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