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Mercoledì, 14 Marzo 2012 10:20

Nel limbo della disoccupazione una voglia di riscatto Featured

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di Angelo Sceppacerca

Il lavoro è un bene per l’uomo – è un bene della sua umanità – perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle sue necessità, ma anche realizza se stesso come uomo, anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”èsotto gli occhi di tutti il problema del disorientamento dei giovani di fronte al lavoro. Si ha l’impressione che a mancare non sono solo le opportunità oggettive di lavoro, ma anche l’idea stessa del lavoro. I giovani d’oggi entrano al lavoro in età sempre più avanzata, generando un prolungarsi della vita nell’ambito della famiglia d’origine con le conseguenti storture sociali.

In Europa solo il 51% di giovani (tra i 16 e i 24 anni) sono economicamente dipendenti dalle famiglie d’origine, mentre in Italia raggiungiamo quota 74%.

Corriamo il rischio che una intera generazione sia destinata ai margini. Nel nostro paese oltre agli alti tassi di disoccupazione giovanile c’è anche una prolungata transizione tra la fine degli studi e l’inserimento nel mercato del lavoro, determinando una disoccupazione di lunga durata. Così slittano in avanti scelte di vita fondamentali: l’uscita di casa, il matrimonio, la famiglia, la decisione di mettere al mondo figli. Tutto questo induce in molti giovani un senso di impotenza e di rassegnazione. Serve invece trasformare queste situazioni critiche in nuove opportunità. Per secoli il susseguirsi delle generazioni ha scandito il progresso economico-sociale dell’umanità e i figli hanno vissuto in condizioni migliori dei padri. Solo le guerre, le carestie e le pestilenze hanno rallentato questo andamento. Il futuro non ci dà più la certezza di questo continuo progredire, anzi percepiamo il rischio che le future generazioni possano subire un arretramento delle condizioni di vita rispetto a quelle odierne.
Il lavoro non concorre più alla loro educazione. I giovani d’oggi sono isolati in un limbo dal quale non riescono a guardare la società che lavora. Non conoscono il peso del lavoro, la fatica, la durezza dei suoi ritmi scadenzati dal cartellino che si deve timbrare tutte le mattine. E così la notte è per loro una dimensione di vita molto più familiare dell’alba, quando si parte per essere in orario al lavoro. Ma del lavoro spesso non si conosce neppure “l’intelligenza delle mani”, che è il frutto dell’utilizzo appropriato degli attrezzi fondamentali, anche solo per fare piccole manutenzioni domestiche, tanto ci pensa papà.
Certo, ci son giovani e giovani. Anche per quanto riguarda il tema del lavoro. Ricordate l’estate scorsa, a Madrid, in occasione della giornata mondiale dei giovani? Da una parte, in molti Paesi d’Europa, migliaia e migliaia di giovani contestavano la debolezza e l’inadeguatezza della politica, lo strapotere dei poteri forti della finanza, la mancanza di crescita e sviluppo, soprattutto di fiducia e di speranza dall’altra si celebrava e festeggiava la vita, la speranza, la fede, la fiducia, l’entusiasmo, la gioia di vivere. In realtà quei giovani (a Madrid per incontrare il Papa) non vivono in un altro pianeta, non sono meno preoccupati e coinvolti dalle vicende economico-finanziarie di questi tempi difficili: ciò che è diverso è il punto di vista da cui osservano la realtà. I giovani, infatti, non sono soltanto, come spesso si usa ripetere, il futuro della nostra società: essi sono soprattutto un modo diverso di vivere e interpretare il presente, sono una prospettiva sul mondo. è grave che i giovani siano fuori non solo dal mondo del lavoro, ma anche dai luoghi che contano: l’economia, la politica, le istituzioni. Eppure hanno sulle spalle gran parte dei debiti fatti dai padri. Occuparsi di loro, dunque, è innanzitutto un fatto di giustizia. Ad ogni livello.
C’è da sperare che il problema del precariato dei giovani si risolva grazie innanzitutto a un cambio radicale di mentalità; a condizione che tutti – proprio tutti – siamo disposti a pagarne almeno una parte del prezzo. Come? Riscrivendo il patto tra le generazioni.
Cosa fare? Intanto riproponiamo quattro consigli di un economista (L. Bruni) ai giovani di oggi che vogliono fare famiglia in un mercato del lavoro quanto mai flessibile. Primo, non considerare il proprio titolo di studio come un vincolo, ma piuttosto come un’opportunità. Secondo, non considerare il lavoro intellettuale superiore al lavoro manuale: da una laurea umanistica può venire fuori un bravissimo giardiniere, e di certo il titolo di studio, inteso come patrimonio e accrescimento personale, non va mai perso. Terzo, ricordare che il lavoro non parte dall’offerta, ma dalla domanda: il lavoro è sempre una risposta a un bisogno, a un interesse altrui. Quarto, ma non ultimo, sviluppare la virtù della creatività, essere imprenditori per sé e per gli altri. Questa, credo, è la grande sfida dei giovani di oggi, o almeno dei giovani che vogliono scommettere sul futuro.

 

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