Mentre la stagione volge al caldo molte delle insalate di campo volgono al seme, lasciano la forma giovane di piante da poco spuntate per irrobustirsi e mettere gli steli sui quali nascono i fiori: diventano dure, spesso mutano sapore e non sono più buone per la tavola. I campi offrono ancora insalate di campo buone come la barba di becco, la betonica (lessa per fare frittate), asparagi selvatici, la crepide (insalata che si trova tutto l’anno e si può anche lessare), polloni di luppolo e di vitalbe. Se la stagione è propizia anche funghi, rari ma buoni.
Le piante sono nello stato di maggior vigore preparandosi ai fiori ed esprimono al massimo le loro virtù che si traducono in sapore, ma anche in qualità curative, alcune medicinali come la camomilla (Matricaria chamomilla), pianta annua, verde con piccoli capolini. È erba comunissima nei campi, luoghi erbosi, abbondante lungo le strade campestri e le siepi. Se ne ottiene una bevanda gradevole, profumata e benefica, se non altro consolatrice. Viene usata infatti per calmare dolori, disturbi nevralgici: sciatica, mal di denti, trigemino, nervo sciatico, dolori reumatici, lombaggine, torcicollo e altro.
Già dalle ultime giornate fredde si cominciano a vedere in mezzo ai campi ancora non coltivati delle figure un po' infagottate, incerte nelle nebbioline mattutine e serotine, che si aggirano qua e là per la campagna, guardando per terra e chinandosi ogni tanto per raccogliere qualcosa. Sono i cercatori e le cercatrici di insalate di campo raccolte ancora da molti per passatempo, per gusto della tavola e anche per salute, perché è rimasta nella tradizione orale una conoscenza antica delle erbe salutari e della pratica che era a queste collegata.
Un tempo l'insalata selvatica era una componente fondamentale dell'alimentazione nella quale le erbe commestibili spontanee che si raccolgono nei periodi opportuni erano importanti integratrici degli scarsi mezzi di sussistenza fondamentali. In particolare le insalate si cercano nei mesi invernali non appena i primi freddi intensi, le gelate le hanno rese tenere e liberate da ogni parassita continuando fino nella primavera, fino a quando non s'induriscono producendo il seme. Vengono raccolte per semplice consumo, ma oggi soprattutto non servono più per cacciare la fame e si usano come cose ghiotte, sapori rari, componenti di altri alimenti, ai quali danno sapore e fragranza.
Segno della fine del freddo era un tempo l'apparizione del carciofo Cynara cardunculus scolymus che spunta negli orti con le ultime brezze gelide e i timidi venti primaverili. Oggi le tecniche di coltivazione e le importazioni riforniscono i mercati di questi ortaggi durante gran parte dell'anno, mentre assai pregiata è anche la nostra produzione autunno-vernina.
La massaia, quando vedeva sulle piante spuntare i carciofini si rincuorava: la penuria, la scarsità di alimenti stava finendo e la terra cominciava a dare di nuovo i suoi prodotti. Il carciofo poi, arrivando quando le risorse sono tutte esaurite o quasi, aveva la qualità di essere in cucina un prodotto che, a differenza degli erbaggi che finiscono in gran parte come contorni di relativa sostanza, si presta ad essere cucinato in tante maniere e a soddisfare diversi bisogni.
Scrive Plinio nella Storia naturale: "Il serpente, poiché durante il letargo invernale gli si è formata una membrana intorno al corpo, si spoglia di quell'impiccio grazie all'umore del finocchio e riappare tutto lucente a primavera. Comincia a spogliarsene dalla testa e non impiega meno di un giorno e di una notte, rivoltandolo in modo che la parte interna della membrana appaia all'esterno.
Lo stesso animale, dato che nel suo ritiro invernale gli si è indebolita la vista, sfregandosi all'erba marathon (traslitterazione del nome greco del finocchio), la applica sugli occhi e recupera la capacità di vedere; se poi le sue squame si sono irrigidite, si gratta contro le spine del ginepro" (VIII, 41). Questa credenza è diffusa in tutta l'Europa dove comunemente si crede che il finocchio, come le carote, rinforzi la vista e curi gli occhi. Ma le qualità medicamentose della pianta sono molte di più. Il finocchio è tra le poche piante alimentari orticole che non abbandona la tavola nei tempi freddi di penuria ma, come il cavolo, non gode di gran prestigio: dimensioni modeste, non particolarmente bella, dolciastra non si presta a fare un piatto di figura sulla mensa. Era una volta una risorsa dei tempi difficili: una tegamata di finocchi, condita con sugo o carne grassa, o trattata a frittata, poteva risolvere il problema d'una cena.
Come contorno si segnala per la leggerezza e con elaborazioni culinarie particolari diviene anche una portata appetitosa e ricercata. Tra le piante coltivate, è una delle più utili, presente in mille ricette, attiva nella conservazione degli alimenti, indispensabile nella farmacopea fin dai tempi più antichi.
Vogliamo ripercorrere qui una linea che rintracci come la Provvidenza abbia segnato il corso dell'anno con una successione di piante che appaiono sulla terra, alle quali l'uomo è sempre ricorso, soprattutto nella povertà, per sopravvivere anche in tempi di scarsità o indigenza.
Queste piante in campagna stanno dietro la casa, nell'orto, e costano solo la fatica del coltivarle. Il primo ortaggio, il più utile nel cuore del freddo, è il cavolo che resiste al gelo senza mancare mai, nelle varie specie, nel corso dell'anno.
Con il temine cavolo si indicano parecchie varietà orticole che si danno il cambio nelle varie stagioni, tanto che il cavolo si trova in specie diverse quasi tutto l'anno. Tuttavia, guardando un orto d'inverno si potrà pensare che non offre nulla per la tavola, cosa non vera, perché l'occhio esperto troverà che vi crescono alcune verdure che furono il sostegno alimentare della povera gente nel periodo freddo dell'anno in cui la penuria dei prodotti della terra si fa sentire.
di Andrea Ciucci
E prima di andare a dormire, anche se è tardi, ogni membro della famiglia preghi per il festeggiato, e i genitori benedicano il proprio figlio con un segno di croce sulla fronte prima di dargli il bacio della buona notte. Anche se ha quasi trent’anni e il giorno dopo, finalmente, si sposa! nSe c’è bisogno, questo è il momento per chiedersi reciprocamente scusa e fare la pace. Infine, se il festeggiato è uno della famiglia, vivete con intensità e cura particolare la sera precedente. Cenate insieme, evitate di guardare programmi idioti alla televisione, tenete gioiosamente alto il tono della discussione.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle singole espressioni della preghiera del Signore, sulla falsariga del “secondo modo di pregare” proposto da Sant’Ignazio: si tratta di riprendere le singole parole o frasi compiute e di pregare riflettendo su di esse, domandandosi che cosa vogliano dire, riflettendole nella nostra vita, nelle nostre azioni, nei nostri interessi quotidiani. Quando diciamo “sia santificato il tuo nome”, a quale nome ci intendiamo riferire?
Ovviamente al nome che riassume in sé tutti i titoli di Dio, elevandoli, se possibile, ancora più in alto: il nome stesso di Padre. Dio infatti non è solo l’Onnipotente, il creatore, il Giudice, il Signore: è soprattutto Padre, e questo nome di padre ci aiuta a comprendere esattamente il vero senso di tutti gli altri titoli che gli attribuiamo.
Così è un giudice come lo è un padre per i figli; è onnipotente, e questa sua onnipotenza è quella di un padre per i suoi figli; è legislatore, e in questo senso è come un padre che dà regole giuste e vere, non comandi arbitrari e dispotici, per i suoi figli. Il nome dunque di Padre rischiara ed illumina tutto quello che possiamo dire di Dio e su Dio.
di Ottavio De Bertolis
Vogliamo riprendere le singole parole della preghiera del Signore, come abbiamo fatto nei nostri incontri precedenti, per poterle gustare intimamente: molte volte le abbiamo ripetute, ma non sempre ci siamo soffermati in esse. Sant’Ignazio ci insegna proprio che è necessario “sentire e gustare intimamente” la preghiera che facciamo: il rischio sarebbe infatti quello di “dire su” orazioni, un po’ a pappagallo, certo sinceramente, ma con poco senso, e quindi con meno frutto spirituale.
Vogliamo ora considerare la seconda parola della preghiera del Signore: non solo abbiamo invocato Dio come Padre, ma in più aggiungiamo “nostro”. Non è un’aggiunta poco significativa: la preghiera infatti non ci pone in una sorta di individualismo, ma ci apre al rapporto con gli altri. Nessuno prega per se stesso, si potrebbe dire, ma ogni preghiera, anche quella rivolta per i bisogni più personali, è sempre una preghiera nella Chiesa e per la Chiesa.
Nasce in un contesto comunitario, e sfocia per il bene di tutti: proprio come le preghiere liturgiche, quelle della Messa per intenderci, non sono mai formulate in prima persona singolare, con un “io” iniziale, ma sempre con il “noi”, proprio perché sono rivolte per il bene di tutti. Così, anche se il sacerdote celebrasse la Messa da solo, dovrebbe sempre dire “preghiamo”, prima di ogni orazione.
Abbiamo già parlato del “secondo modo” di pregare secondo Sant’Ignazio, come cioè si deve semplicemente fermarsi sul significato del Padre nostro, illuminando le singole parole con ragionamenti o paragoni, in modo tale che le espressioni che noi usiamo scendano maggiormente nel nostro cuore; per gustare e capire maggiormente quello che diciamo, possiamo ripeterlo più volte, come una sorta di litania, per tutto il tempo che desideriamo, prendendocela comoda, come si dice, ossia fino a quando sentiamo interiormente che quello che abbiamo ripetuto ci illumina e conforta.
Possiamo innanzitutto partire dalla prima parola: “Padre”. Che cosa significa, e che cosa significa per me? Va, innanzitutto, osservato che Dio non è un padre come quelli che abbiamo avuto secondo la carne, ma moltiplicato, per così dire, all’ennesima potenza.
Potremmo dire, al contrario, che i nostri genitori sono “padri” tanto quanto a Lui rassomigliano, e a Lui in qualche modo rinviano. Dio non è la proiezione della nostra esperienza filiale (che potrebbe anche non essere affatto così bella o “divina”), né è un padre assente o un padre padrone; al contrario, noi siamo “padri” tanto quanto assomigliamo a Lui.