Nel buio misterioso di una cavità naturale la venuta di Gesù Bambino appare un luminoso contrasto. Spesso, nelle rappresentazioni, in lontananza sullo sfondo, sorge la turrita città di Gerusalemme quasi a ricordare il luogo della futura passione, già in qualche modo presagita dall’umile nascita del Figlio di Dio. Luca parla solo di una stalla e di una mangiatoia. Il bue e l’asino appartengono ad una forma di idillio rurale
Se poco sappiamo circa l’infanzia e l’adolescenza di Gesù, ancor minori notizie abbiamo della fanciullezza di Maria. L’autore del Protoevangelo di Giacomo, scritto apocrifo del secondo secolo, racconta che all’età di tre anni Maria fu accompagnata dai suoi genitori Gioacchino e Anna al tempio, dove un sacerdote l’accolse e la benedisse, facendola sedere sul terzo gradino, cioè il più vicino possibile all’altare; il Signore effuse su di lei la sua grazia ed ella si mise a danzare.
Il racconto apocrifo nasconde un grande messaggio: il cuore di Maria fu sempre interamente dedicato a Dio solo. Come molte feste mariane antiche, anche questa nasce dalla dedicazione di una basilica in onore di Santa Maria, costruita dall’imperatore Giustiniano (527-565) a Gerusalemme e dedicata il 21 novembre 543, sul luogo in cui la Vergine avrebbe trascorso la propria infanzia consacrata al servizio divino.
“Midrash” è la parola che nella lingua ebraica indica il modo di interpretare la Bibbia che, andando al di là del senso letterale, scruta il testo in profondità per renderlo attuale alla vita del lettore, traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che non appaiono a prima vista. Con questo criterio vanno letti i primi capitoli dei Vangeli di Matteo e di Luca, detti “Vangeli dell’infanzia”, dove Gesù è presentato come colui che dà compimento alle profezie.
San Matteo cita molte volte l’antico testamento, per dimostrare che Cristo realizza quello che avevano promesso la legge di Mosé e i profeti, e lo fa anche nella narrazione della fuga della Santa Famiglia in Egitto nel secondo capitolo del suo vangelo.
Gesù già da bambino partecipa così alla vita del suo popolo: l’Egitto diventa per lui il rifugio, come lo fu per i patriarchi Abramo, Giuseppe e Giacobbe, la terra dove il Cristo Bambino, appena nato, si rifugiò e visse per sfuggire alla persecuzione del re Erode.
«Tra poco Nazareth si addormenta sotto la luna, la cena è pronta, cena di povera gente: l’acqua della fonte, il pane di giornata e il vino di Engaddi… e poi c’è Maria che ti aspetta, o Giuseppe. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio, falle una carezza, pure per me, e dille che anch’io le voglio bene, da morire. Buona notte, Giuseppe». Con queste delicate parole don Tonino Bello, il compianto vescovo di Molfetta, ritrae una scena verosimile della vita quotidiana della Santa Famiglia.
Un giorno san Benedetto, immerso nella sua solitudine di eremita, ricevette la visita di un prete, che gli disse: “Alzati e prendiamo un po’ di cibo, perché oggi è Pasqua”. Gli rispose il Santo: “Non lo sapevo, ma me ne sono accorto perché sei venuto a visitarmi”. Suscitare in ciascuno la lode e la condivisione, questa è anche la forza delle visite che ci rendiamo gli uni gli altri: ci incoraggiamo vicendevolmente e riprendiamo fiducia nell’avvenire, proprio come è il messaggio della Pasqua.
Appena venuta a conoscenza della propria maternità divina e di quella prodigiosa della cugina Elisabetta, Maria non può trattenere l’impulso di andare a farle visita: “in fretta”, sottolinea il vangelo di Luca, ma una fretta motivata dalla premura e dall’amicizia che spinge al desiderio di essere e di rendere partecipi dei doni ricevuti.
Dopo che Pietro e l’ “altro discepolo”, forse San Giovanni, si sono allontanati dal sepolcro di Gesù il mattino di Pasqua, Maria Maddalena non riesce a staccarsene e si china per osservare meglio l’interno. è un gesto certamente dettato dall’entrata angusta, ma che può assumere una valenza spirituale anche per noi: per capire il mistero della Risurrezione occorre mettersi in atteggiamento di adorazione. Non per niente questa parola nella lingua greca, usata dai Vangeli, indica etimologicamente un gesto di sottomissione, di riconoscimento della propria piccolezza davanti alla maestà di Dio. Adorare è orientare la propria vita verso la volontà di Dio, cioè verso il bene e verso il vero.
Ma per completare il senso del termine, è bene mutuarlo anche dalla lingua latina, dove “adorare” indica il movimento dell’accostare la bocca: cioè del baciare, dell’amare.
Allora l’atteggiamento adorante si fonde con l’unione d’amore con Dio.
La Resurrezione di Gesù può essere vissuta nella sua profondità solo se ci si mette nell’atteggiamento dell’abbandono, della dimenticanza di se stessi per assumere quello dell’accoglienza e del dono. “Non mi trattenere” dice Gesù alla Maddalena, “perché non sono ancora salito al Padre”: è come dire che per cogliere la sua presenza è necessaria una prospettiva che esuli dall’esperienza puramente sensitiva, per entrare in quella degli affetti.
Benedetto XVI in un recente discorso metteva in guardia dall’uso esclusivo del metodo storico-critico nella comprensione del testo biblico, escludendo la comprensione dettata dal “sensus fidei” della comunità cristiana. Potremmo tradurre questa espressione affermando un “sesto senso” della comunità, un modo di percepire le verità della fede che le viene dato dallo Spirito Santo e che essa scopre di avere come carisma.
“Santa e dolce dimora/dove Gesù fanciullo/ nascose la sua gloria./ Giuseppe addestra all’umile/arte del falegname/ il Figlio dell’Altissimo./ Accanto a lui Maria/fa lieta la sua casa/ di una limpida gioia”: con queste parole la liturgia descrive la vita quotidiana nella casa di Nazareth. è messa in risalto, quasi posta al centro, la figura di Giuseppe, come padre ed educatore di Gesù, a cui rimane però rivolta tutta l’attenzione.
“Non temere di prendere con te Maria, tua sposa” gli aveva detto Gabriele, costituendolo così padre di Gesù, con tutti i diritti e doveri di questo ruolo. Se Maria, parente di Elisabetta e di Zaccaria, apparteneva alla stirpe di Aronne, Giuseppe invece era discendente di Davide: Gesù, divenendo suo figlio adottivo, acquistava tutti i diritti di un figlio carnale ed era a pieno titolo accolto nella stirpe di Davide, compiendo così la promessa fatta.
Al museo del Louvre si trova un quadro di Georges de la Tour, un pittore francese del Seicento, che rappresenta Giuseppe intento di notte al suo lavoro di falegname; accanto a lui Gesù gli fa lume reggendo una candela accesa. Nella penombra della scena è pienamente illuminato il volto dell’adolescente, di cui colpisce lo sguardo sereno e affettuoso rivolto al padre che, pur intento a praticare un foro in una trave di legno, alza gli occhi per fissarli in quelli del figlio.
L’archeologia e le scienze ad essa connesse hanno contribuito alla ricostruzione grafica del grandioso tempio di Gerusalemme, iniziato nel quarto anno del suo regno da Salomone, la cui costruzione si protrasse per sette anni e al termine dei quali si svolsero con grande solennità i riti di consacrazione al culto.
Come bene esprimeva la preghiera di dedicazione, il tempio richiamava l’alleanza che Dio aveva concluso con il suo popolo, che in tal modo era diventato eredità sacra a Lui: “Tu, Signore, mantieni l’alleanza e la fedeltà verso i tuoi servi che camminano davanti a te con tutto il loro cuore”. A quest’epoca risale anche il rito della presentazione al tempio, col conseguente obbligo per ogni ebreo di andare ad offrire al Signore il proprio primogenito maschio: era un modo per dire “Questo bambino non mi appartiene. E’ tuo, Signore”. E per riaverlo, con un gesto simbolico, come per riscattarlo, si offriva in sacrificio una coppia di giovani tortore o di colombi. Forse uno strascico di tale usanza era rimasto nella devozione popolare in uso fino a qualche decennio fa, quando la donna che aveva partorito un maschio o una femmina, si recava alla chiesa e, accompagnata dal sacerdote, rendeva grazie a Dio per il dono della nuova creatura.
La piccola e angusta porta che dalla piazza inondata di sole conduce alla basilica della Natività è un richiamo costante all’atteggiamento spirituale che si deve avere per contemplare il Mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio; è un’apertura piccola e molto bassa tanto da essere chiamata la Porta dell’Umiltà, perché per entrarvi è necessario inchinarsi.C’è chi dice che venne fatta così al tempo degli Ottomani. Bisogna chinare il capo per oltrepassare la soglia e solo allora l’interno della basilica appare con tutto il suo splendore, ricca anche delle preziose suppellettili liturgiche tanto in uso presso i fedeli Ortodossi, a cui appartiene.