di Mario Sgarbossa
Il giovane Giuseppe era cresciuto in una buona famiglia guidata da suo padre Giacobbe. Il nome appare in fondo alla genealogia elencata dall’evangelista Matteo. E Dio lo arricchì delle sue grazie preparandolo a essere un degno sposo della Vergine Maria, la madre di Gesù: una pedagogia divina che operò attraverso le vicende umane. L’infanzia di Giuseppe è facile immaginarla attenendoci alle tradizioni tramandate oralmente in Israele, come si è detto, e poi raccolte e scritte nel Talmud, dalle cui pagine possiamo apprendere la graduale formazione religiosa di un giovane ben disposto ad assecondare l’opera della grazia.
Anzitutto Giuseppe, fin da quando riuscì a pronunciare la parola amen (così prescrive il Talmud) veniva condotto ogni sabato alla sinagoga dal padre Giacobbe. E qui imparò a leggere e a scrivere in lingua ebraica. Il dialetto aramaico lo apprese in famiglia e dai ragazzi con i quali condivideva il gioco.
Poi, al traguardo dei tredici anni che segnava il passaggio dalla fanciullezza alla maturità per ragazzi e ragazze ebraiche, Giuseppe poté muoversi autonomamente, aggregandosi anche ai pellegrini durante le visite al Tempio di Gerusalemme. I giovani potevano così frequentare le lezioni dei maestri della Legge nella sinagoga annessa al Tempio.
Gli esperti in sacra Scrittura - di solito farisei che si dedicavano non a tempo pieno all’istruzione dei giovani, - ascoltavano attentamente le domande che i giovani gli rivolgevano e le loro risposte; in tal modo colmavano le inevitabili lacune della loro formazione religiosa. I villaggi lontani da Gerusalemme raramente erano visitati da celebri rabbini.
Dal padre Giacobbe, di discendenza davidica, approdato a Nazareth dalla nativa Betlemme, Giuseppe imparò a memoria le quotidiane benedizioni che recitava nei tre momenti della giornata in compagnia del padre, durante la pausa di lavoro nella bottega. Le benedizioni venivano poi riposte nel tubo di metallo (il mezuzah) conservato in una apposita cassetta appesa alla parete, a imitazione di quanto avveniva il sabato nella sinagoga.
Con la recita delle benedizioni, Giuseppe professava la sua fede nel Dio unico d’Israele, Jahweh, nome reso impronunciabile ai profani (come recita il primo comandamento: non nominare il nome di Dio invano) eliminando dal nome le vocali e scrivendo YHWH. è il tetragramma in cui si cela il nome di Dio
Anche Giuseppe si asteneva come tutti dal pronunciare il santo nome, ricorrendo sia in casa che in sinagoga al corrispondente Adonai, Signore.
La scrupolosa osservanza dei riti, che ai cristiani possono apparire superati dall’insegnamento evangelico, offriranno a Gesù lo spunto per chiarire e perfezionare quanto è stato tramandato nel Talmud.
Della Torah fanno parte i primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco, dal greco penta, cinque, e teukos, astuccio dentro il quale vengono conservati i rotoli della Legge. Vi sono le norme che regolano i riti prescritti agli ebrei. I cinque libri hanno ognuno un nome proprio: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, il più importante.
Nella parte narrativa sono inserite le varie norme da osservare, in ordine cronologico. Nella Genesi si narra l’origine del popolo della promessa, Israele; nell’Esodo la legislazione fondamentale risalente a Mosè, e negli altri libri le varie legislazioni in forma riassuntiva, con la storia di Israele, dalla schiavitù d’Egitto fino alla liberazione e all’ingresso nella terra promessa.
Nel quarto libro del Pentateuco, i Numeri, che narra la storia degli Israeliti, dagli ultimi giorni trascorsi nel Sinai alla vigilia dell’ingresso in Palestina, è contenuta la benedizione che Dio ha trasmesso a Mosè come preghiera per impetrare dal santo Volto la pace.
“Il Signore parlò a Mosè e disse: Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: così benedirete gli Israeliti. Direte loro: ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace. Così essi porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Dio dunque mostra il suo volto splendente, cioè sorridente, a quanti invocano il suo nome. E’ questa la benedizione che Giuseppe impartiva quotidianamente al fanciullo Gesù. Possiamo anche immaginare con quale devozione Gesù l’ascoltava. E il Padre con volto sorridente volgeva dal cielo uno sguardo di compiacente predilezione al Figlio e a colui che in terra faceva le sue veci. Due volte, come si legge nel Vangelo, il Padre manifesterà la sua compiacenza al Figlio, a viva voce, perché tutti i presenti udissero: “questo è il mio Figlio prediletto”, poi dice anche a noi: ascoltatelo.