Essa si esprime, infatti, nel concetto dell’“adempimento” (n.8), raggiunto nella realtà del “corpo” di Gesù – il Nuovo Testamento - , la quale, benché posteriore nel tempo, è tuttavia l’origine dell’“ombra” – l’Antico Testamento - , che storicamente l’ha preceduta. Di qui la posizione “singolare” di san Giuseppe, il quale, a motivo del suo ufficio, “non appartiene al Nuovo Testamento, né propriamente all’Antico, ma all’‘Autore’ di entrambi e alla pietra angolare che dei due ne fece uno” (F. Suárez). I due Testamenti, infatti, né si giustappongono né si sostituiscono, perché sono l’uno “lo sviluppo” dell’altro. “L’uomo giusto, che portava in sé tutto il patrimonio dell’Antica Alleanza, è stato anche introdotto nell’‘inizio’ della nuova ed eterna Alleanza in Gesù Cristo” (RC, n.32). Il patrimonio dell’Antica Alleanza – Gesù Cristo! - , contenuto nella promessa fatta ai nostri padri, a cominciare da Abramo, attraverso Davide viene consegnato alla “premurosa custodia” di Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù detto il Cristo.
La ministerialità di san Giuseppe in relazione all’economia della salvezza, oggetto di tutta l’Esortazione apostolica, appare già nel suo titolo: “Il custode del Redentore”. Perché la qualifica di “custode”, mentre sarebbe stato possibile esaltare la figura e il ruolo di san Giuseppe addirittura usando il titolo di “Padre del Verbo” o “Padre di Dio”? Per evitare il sussulto di qualche teologo e per non impressionare troppo i semplici fedeli si sarebbe potuto ricorrere anche ad un’espressione più familiare, già presente nel Breviario secondo l’uso gallicano e largamente diffusa nella pietà popolare. Chi non ricorda, infatti, l’inno latino: “Salve, pater Salvatoris; salve, custos Redemptoris”?
Perché allora non scegliere tra questi due titoli quello di “Pater Salvatoris”, che sarebbe stato più elogiativo? Da quanto finora esposto è facile dedurre che il titolo “custode”, preferito intenzionalmente a quello di “padre”, si adattava meglio al tenore di tutto il documento pontificio, che intende presentare san Giuseppe come “ministro della salvezza”. La domanda, allora, potrebbe essere piuttosto un’altra: “Perché Giovanni Paolo II ha voluto presentare san Giuseppe come ‘ministro della salvezza’, pur esaltandone e valorizzandone la paternità?”.
La risposta va cercata nella scelta fondamentale del magistero di Giovanni Paolo II, che è il tema della “Redenzione”. Poiché la redenzione dell’umanità è la dimostrazione dell’amore di Dio per la “sua immagine” (Gn 1,27), “assunta” dallo stesso suo Figlio nell’incarnazione, “tutti” devono partecipare a quest’opera, denominata “economia della salvezza”. Ricordiamo che il Papa rivolge la sua Esortazione a “tutta” la Chiesa: “ai Vescovi, ai Sacerdoti e ai Diaconi, ai religiosi e alle Religiose, a tutti i fedeli”. Alla Chiesa intera, coinvolta in quest’opera, egli vuole ricordare qual è la sua identità, proponendole un modello concreto, san Giuseppe, appunto. Questo scopo è esplicitamente dichiarato nell’Introduzione (n.1) e ampiamente sviluppato nell’ultima parte (nn.28-32).
L’affermazione di Giovanni Paolo II, che deve “crescere in tutti la devozione al Patrono della Chiesa universale”, è finalizzata all’accrescimento dell’“amore al Redentore, che egli esemplarmente servì”. Proprio questo “servì”, infatti, è il “profilo” della figura di san Giuseppe, presentato sempre nei vangeli come attento e fedele esecutore degli ordini di Dio trasmessigli da un angelo nel sonno. San Tommaso traccia questo “profilo” con due parole, che traducono la “devozione” propria di san Giuseppe, ossia il servizio generoso da lui reso al mistero dell’Incarnazione: “ministro e custode”. “Custode”, perché nel comportamento di san Giuseppe non c’è niente che tradisca un qualsiasi protagonismo; “ministro”, perché lo troviamo sempre descritto come un attento esecutore di ordini.
Si comprende allora perché all’invocazione del patrocinio la Chiesa debba associare coerentemente la necessità di imitare il suo Patrono: “Oltre che alla sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera Comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele”. Avendo sempre davanti agli occhi l’economia della salvezza, della quale Giuseppe fu speciale ministro, tutta la Chiesa deve imparare da lui a servirla: “Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all’apostolato” (n.32).
Se il profilo caratteristico di san Giuseppe, lo stesso della Chiesa, è il “servizio”, la virtù che lo rende possibile è evidentemente l’obbedienza. “Come è detto nella Costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l’atteggiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del ‘religioso ascolto della Parola di Dio’, ossia dell’assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all’inizio della redenzione umana troviamo incarnato il modello dell’obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio” (n.30). La Liturgia si fa fedele interprete di questa esigenza della Chiesa, quando nella preghiera, “ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all’opera di salvezza” (n.31).