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Giovedì, 12 Aprile 2012 08:39

Pio X "sentinella" nel cantiere di San Giuseppe al Trionfale

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Alejandro Mario Dieguez

Un attore in primo piano

La lunga serie di aiuti materiali e spirituali che il Pontefice riversò su don Guanella e le sue opere non sono altro che la manifestazione della stima e dell’affetto che questi riponeva nel prete comasco e per i quali si considerava «come un parrocchiano di S. Giuseppe»


Fin dall’inizio del suo pontificato, Pio X – un papa-pastore vissuto sempre a contatto diretto con la realtà dei fedeli – aveva constatato gli effetti dell’incremento della popolazione di Roma per l’espansione edilizia e quindi la necessità di indirizzare risorse umane e materiali verso la periferia, diventata “quasi terra di missione”. Rivoluzionò quindi l’assetto delle parrocchie romane sopprimendone ben 15 del centro storico – troppo numerose e relativamente troppo piccole – e facendo sorgere 16 nuove parrocchie nei quartieri marginali, molte delle quali costruite con quei 12 milioni di lire da lui faticosamente stanziati a questo scopo.
Perciò, quando nell’udienza del 13 gennaio 1908 don Guanella mise il Papa al corrente del suo progetto di costruire una nuova chiesa sulla Balduina, non poteva trovare accoglienza più favorevole: «Sento che avete un pensiero lontano di fare una chiesa oltre porta Trionfale. Vi auguro che quel pensiero si faccia vicino e concreto. Voi avete sperimentato gli effetti della divina Provvidenza. Non tentate Iddio, ma confidate, confidate; ne sarei tanto, tanto contento. Dicono che sono ricco e che ricevo milioni. Non credetelo, perché non è vero! Dalle fonti alle quali vorrebbero alludere non ricevo neppure un centesimo. Tuttavia in quanto posso io vi aiuterò, perchè una chiesa in quella località è proprio necessaria».
E Pio X fu di parola: volta per volta consegnò a don Guanella o all’ingegnere Leonori dei vistosi contributi per le diverse fasi di costruzione della chiesa di S. Giuseppe fino ad arrivare alla bella somma di 440.000 lire... una vera fortuna, per quel tempo. Un capitale concesso dietro promessa di restituzione, una volta venduti i terreni della colonia di Monte Mario (come testimonia il nostro San Luigi nella ricevuta del 28 marzo 1912, qui riprodotta). Certo, al Papa non sfuggiva l’eventualità che “quello straccione” di don Guanella, come affettuosamente lo chiamava, non avesse mai potuto onorare tale impegno. Tanto è vero che diceva: «Pagheranno, o non pagheranno, intanto mi hanno fatto una chiesa necessaria». Infatti, il debito finì per essere completamente condonato.
Tuttavia, il contributo generoso di Pio X per l’opera guanelliana del Trionfale non si limitava soltanto all’aspetto finanziario ma arrivava a soddisfare i bisogni più minuti: dal «magnifico ciborio dorato, tolto alla cappella di S. Matilde» e donato per la nuova chiesa; alle numerose offerte per l’asilo dei piccoli, grazie alle quali «si dava loro tutti i giorni la minestra»; alla raccomandazione a favore dei sacerdoti collaboratori del parroco don Bacciarini, per il rinnovo della facoltà di confessare: «Il Santo Padre, che conosce tutti i sacerdoti addetti alla cura della parrocchia di S. Giuseppe, li raccomanda per la dispensa dall’esame», scriverà di proprio pugno. Poi ci sono i tanti sussidi concessi, grazie all’intercessione di don Bacciarini, per la cura di bambini malati di tifo, per il collocamento di orfani in istituti assistenziali, per sollevare l’indigenza delle vedove, per pagare gli esercizi spirituali nella casa di Ponte Rotto ai giovani della parrocchia che facevano la prima comunione o, semplicemente, «per l’acquisto di tavole per raccogliere i giovani dopo scuola».
La lunga serie di aiuti materiali e spirituali che il Pontefice riversò su don Guanella e le sue opere non sono altro che la manifestazione della stima e dell’affetto che questi riponeva nel prete comasco e per i quali si considerava «come un parrocchiano di S. Giuseppe».
Pio X infatti, era costantemente aggiornato dei progressi compiuti nel Trionfale dai suoi segretari, che nei pochi momenti liberi non disdegnavano di buttarsi nella mischia – anzi spesso nel fango – per fare un po’ di apostolato nel più vasto quartiere di Roma. Quello che poco prima era un luogo pagano alle porte del Vaticano, grazie allo slancio apostolico di don Bacciarini e dei confratelli e le consorelle, stava lentamente diventando “un centro di pietà”.
Loro potevano ben testimoniare in prima persona quanto fosse vero il metodo di apostolato dei primi sacerdoti guanelliani del Trionfale e del loro parroco, che definiva la sua giornata «un cinematografo dalle cinque del mattino a mezzanotte», perché, diceva, «tolto il tempo per sedermi a prendere un boccone non trovo un attimo di tempo libero». Don Bacciarini infatti scriveva: «Qui il bene bisogna farlo più fuori di chiesa che in chiesa. Qui si indice una prima Comunione? L’avviso in chiesa e sul bollettino è lettera morta: bisogna andare a domicilio e non una, ma due, tre volte: tale è l’indifferenza romana. C’è una conferenza per uomini, per giovani? Bisogna strappare ad uno ad uno a domicilio. C’è un ricovero d’un vecchio, d’un ammalato? Bisogna far le scale di un palazzo per lo meno una dozzina di volte.
La stessa via si rinnova pei matrimoni, pei sussidi, pei giovani non ancora cresimati o comunicati, per l’iscrizione dei ragazzi al catechismo nelle scuole, per la diffusione del buon giornale, e chi più ce ne ha ce ne metta. Senza questo metodo noi possiamo star qui a confessare donne e poche anche di quelle e lasciare che la massa del popolo dorma i sonni della sua indifferenza che fa spavento».

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