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Mercoledì, 04 Maggio 2011 15:22

Il dolore: un male da combattere Featured

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di p. Donato Cauzzo

Desidero proporre delle riflessioni di carattere etico generale circa il problema, o meglio l’esperienza del dolore. Cosa significa qui “etica”? In estrema semplificazione la possiamo intendere così: la riflessione sul comportamento umano per valutarlo in confronto ai valori (cosa è bene e cosa è male) e per orientarlo a forme migliori.
Nel linguaggio comune usiamo con una certa indeterminazione i termini dolore e sofferenza. Quando ad es. un paziente tenta di spiegare al medico i sintomi che lo affliggono, può dire: “Sento un forte dolore al ginocchio”, oppure: “Questa artrosi mi fa soffrire terribilmente”. Non voglio qui entrare in distinzioni concettuali troppo raffinate, più proprie del pensiero filosofico o della psicologia. Dolore e sofferenza non sono uguali. Entrambi appartengono all’esperienza del patire, ma sono di diversa natura. Spesso vanno insieme, ma possono essere distinti. Si può soffrire senza provare dolore: es. per un’ingiustizia subita, per un tradimento, per il male morale proprio o degli altri. O si può provare una forma di dolore che non causa sofferenza: es. un atleta nello sforzo della prestazione fisica, un dolore sopportato per raggiungere un bene superiore.

 

Tenendo però conto di una certa fluttuazione tra i due termini, li possiamo qui usare anche come sinonimi.
Poiché il dolore in ogni forma e grado è un evento complesso e che riguarda tutta la persona, e non soltanto la parte che ne è colpita, è sempre stato oggetto di interrogazione non solo da parte delle scienze mediche, ma anche della filosofia e dell’etica, della psicologia e della sociologia, della teologia e della spiritualità.

 

Malattia e  dolore

Una situazione di vita in cui si sperimenta facilmente il dolore è il tempo della malattia. Quando essa arriva, la percezione di benessere corporeo di cui si gode quando c’è la salute si capovolge in malessere, accompagnandosi in una grande percentuale di casi all’esperienza del dolore fisico con maggiore o minore intensità. Indubbiamente, la presenza del dolore è ciò che maggiormente rende penosa la condizione di malattia e ne motiva il rifiuto.
Se al sopraggiungere di un dolore improvviso e inatteso una persona resta come attonita, sorpresa da qualcosa di inaspettato e che porta sempre un carattere di novità, nel caso di dolori ricorrenti si potrebbe pensare ad una certa assuefazione, non solo per la innata capacità di adattamento che l’uomo possiede, ma perché verrebbe a mancare il carattere di imprevedibilità e quasi “ci si aspetta” che accada. Ma nella realtà non è così. Specialmente il dolore persistente, che eccede la capacità di sopportazione, assorbe completamente le forze della persona malata, prosciugando anche le energie mentali e spirituali che le permetterebbero di far fronte in maniera costruttiva all’aggressione della malattia. L’espressione “impazzire di dolore” esprime in maniera quanto mai adeguata ed efficace l’eccesso di sofferenza che può perfino intaccare l’equilibrio mentale.
Quando neppure i farmaci sono in grado di eliminarlo, il dolore si amplifica e diventa pervasivo di tutta la persona, diffondendosi per contagio dal corpo allo spirito. Da sintomo solo organico si trasforma allora in un “dolore totale”, dove si mescolano e si fondono il dolore del corpo e quello dei sentimenti, fino ad arrivare alla mente e all’anima. In questa condizione di “dolore totale”, sembra che questo assorba completamente tutte le energie e il resto della vita della persona, il mondo esterno e quello interiore, come se null’altro possa esistere e avere importanza.

Inutilità del dolore?

La prima attitudine di rilevanza etica di fronte al dolore è la sua condanna. Esso è un male, si oppone al desiderio innato dell’uomo di benessere e di vita piena, va quindi condannato e se possibile eliminato. Ma è sempre soltanto un male? È immorale il dolore? È inutile il dolore? Va eliminato a qualunque costo?
A prima vista dovremmo rispondere affermativamente. L’istinto e la volontà dell’uomo di sfuggire al dolore fanno considerare eticamente buono tutto quanto viene fatto a questo scopo. Ma la riflessione etica non può accontentarsi di questa prima risposta istintiva. Se è certamente immorale procurarlo o imporlo, più arduo è accertare se esso possa o no giocare un ruolo positivo nella nostra vita.
Anche considerando solo il punto di vista organico, esso svolge – almeno inizialmente – una funzione positiva: è come il segnale d’allarme lanciato dall’organismo che qualcosa sta minacciando la nostra integrità fisica. Ancora più complessa poi è la sua valutazione a livello esistenziale. Qui l’esperienza del dolore può avere un carattere ambivalente: può distruggere l’uomo, precipitarlo nella solitudine, farlo regredire psicologicamente, spingerlo alla disperazione, alla follia; può al contrario essere di stimolo a crescere, a scoprire nuovi valori, può spingere alla solidarietà, diventare una via di realizzazione più piena della propria vita (è stato il caso per es. di Cristo, dei martiri…). Il pensatore contemporaneo Salvatore Natoli esprime sinteticamente questa ambivalenza: «Se non si perisce, attraverso il dolore si cresce».
Per il mondo classico antico, il dolore favorisce nell’uomo la conoscenza di sé e del mondo. È noto l’aforisma greco: «L’uomo è un apprendista e il dolore è il suo maestro». O la sentenza di Esopo (nella favola “Il cane e il cuoco”): «I dolori sono insegnamenti».
Anche per il filosofo ateo F. Nietzsche, l’esperienza della malattia e del dolore favoriscono nella persona un cambiamento di vita, stimolano a passare dalla superficie alla profondità, dallo stato adolescenziale a quello della maturità: «Soltanto il grande dolore è l’estremo liberatore dello spirito (…). Dubito che il dolore “renda migliori”, eppure so che esso ci scava nel profondo».
Un altro filosofo, il francese Maurice Blondel, paragona l’esperienza dolorosa all’atto del contadino che sparge il seme sulla terra; questo deve marcire per essere fecondo. Così avviene per noi: «Il dolore è come questa decomposizione necessaria alla nascita di un’opera più piena. Chi non ha sofferto per una cosa non la conosce e non l’ama (…). Il senso del dolore è di rivelarci quello che sfugge alla conoscenza e alla volontà egoista, di essere la via dell’amore effettivo».
Ma il dolore può produrre un effetto positivo solo se accettato; quando viene rifiutato ha un effetto contrario: «Guasta, inacidisce e indurisce coloro che non riesce a intenerire e migliorare» (M. Blondel). Qui accettazione non va intesa come passiva rassegnazione, o rinuncia a fare tutto quanto è possibile per evitarlo e per alleviarlo. Ma come disposizione ad integrare le esperienze di dolore nell’insieme della nostra vita, come una porzione non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente rilevante di essa.

Combattere il dolore

In ogni epoca, l’uomo non ha mai cessato di combattere il dolore, e tutto quanto egli ha fatto per migliorare le condizioni dolorose dell’esistenza è da considerare eticamente buono. Ma nell’epoca moderna, grazie alle straordinarie conquiste della scienza e della tecnica, l’uomo non si accontenta di dominare e lenire il dolore, vorrebbe (a volte pretende) eliminarlo definitivamente. È il sogno di ogni società materialistica: una vita senza dolore o in cui il dolore sia un incidente sempre risolvibile.
Dal mondo romano ci viene questo aforisma: «Divinum est sedare dolorem». In un tempo in cui i rimedi contro il dolore erano ben pochi, e si attribuiva agli dèi tutto quanto riguardava la vita dell’uomo, allo stesso modo che la presenza del male era attribuita all’intervento di una divinità cattiva, così il lenimento del dolore poteva solo essere invocato da un dio benevolo. Questo aforisma indicava da una parte che il lenimento del dolore supera le capacità umane, dall’altra che è un atto altamente desiderabile e apprezzabile: chi vi riesce si eleva a una dignità superiore ed è degno di gratitudine e di lode.
Il dolore va quindi anzitutto combattuto, in tutte le sue espressioni. È questo anche – per i credenti – l'insegnamento del vangelo e della Chiesa. Gesù ha fatto sempre del suo meglio per vincere il male in tutte le sue forme ed espressioni. La sua stessa passione e morte non se le è cercate lui, gli sono state inflitte dalla violenza e opposizione degli avversari: le ha subìte per coerenza alla sua scelta di amore e di donazione radicale al Padre e a noi. La sua libertà è consistita non nel cercare la sofferenza per sé, ma nel non indietreggiare di fronte alla prospettiva inevitabile di essa. Per il resto, Gesù si è sempre impegnato a combattere la sofferenza, mediante le guarigioni e la predicazione dell'amore misericordioso di Dio, dimostrando chiaramente che Dio non vuole che gli uomini soffrano, ma che abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza, cioè che siano felici.
Dalla regola aurea dell’etica, che impone di “fare il bene – evitare il male”, derivano due comportamenti altrettanto doverosi: evitare il dolore evitabile, quindi anzitutto non procurarlo, e lenirlo quanto possibile; e assistere adeguatamente chi ne soffre.
Ne parleremo nei prossimi articoli.

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