Così sono definiti gli Atti degli Apostoli, scritti da Luca, con stile asciutto e preciso, sull'esempio dei diari di viaggio dei grandi narratori greci. Il libro di Luca è il documento più interessante delle origini del cristianesimo, senza il quale la storia della Chiesa primitiva mancherebbe, in parte, della testimonianza diretta del suo grande protagonista Paolo. L'Apostolo delle genti, per buona sorte, non mancò di fornirci varie preziose informazioni sul proprio operato con le sue Lettere.
Il mese di giugno è tradizionalmente dedicato alla devozione al Sacro Cuore di Gesù, anche perché è il mese in cui si celebra la festa liturgica, il venerdì otto giorni dopo la festa del Corpus Domini.
La devozione al Cuore di Gesù ebbe grande incremento grazie alle rivelazioni avute da santa Margherita Maria Alacoque, nel diciassettesimo secolo, e all’apostolato dei Gesuiti e riuscì a imporsi all’opposizione della corrente giansenista.
L’oggetto del culto è il Cuore fisico di Gesù. Pio XII nell’enciclica Haurietis aquas insegna che «nella devozione al Cuore di Gesù è la sua Persona divina che viene adorata, la sua Persona che ha assunto una natura umana e pertanto anche un cuore umano. Chi ha amato con quel Cuore non è stata una persona umana, ma divina».
Con la sua solita chiarezza san Tommaso d’Aquino ha affermato che «adorare l’umanità di Cristo è lo stesso che adorare il Verbo di Dio incarnato, come onorare la veste di un re è onorare il re che l’indossa. Sotto questo aspetto il culto reso all’umanità di Cristo è culto di adorazione».
La devozione al Cuore di Gesù secondo Pio XI è «tutta la sostanza della religione e specialmente la norma di una vita più perfetta, come quella che guida per una via più facile le menti a conoscere intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente ad imitarlo» (Enc. Miserentissimus Deus, 8 maggio 1928).
Il cardinale Carlo Maria Martini, così presentava l’associazione dell’Apostolato della Preghiera, legata al culto del Sacro Cuore: «Tante persone semplici possono trovare nell’Apostolato della Preghiera un aiuto per vivere il cristianesimo in maniera autentica. Esso ci ricorda l’invito di san Paolo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”» (Rm 12, 1).
Riguardo poi alla pratica dei nove primi venerdì del mese, il Direttorio su pietà popolare e liturgia del dicastero vaticano per il culto divino e la disciplina dei sacramenti scrive:
«Nel nostro tempo la devozione dei primi venerdì del mese, se praticata in modo pastoralmente corretto, può recare ancora indubbi frutti spirituali. E necessario tuttavia che i fedeli siano convenientemente istruiti».
Con la sua promessa incondizionata di misericordia Gesù ha voluto indurci a porre in Lui ogni nostra confidenza, rendendosi Egli garante della nostra salvezza per i meriti del suo amorosissimo Cuore.
Tuttavia essa non favorisce in alcun modo la presunzione di salvarsi a buon mercato: le anime sinceramente devote sanno benissimo che nessuno può salvarsi senza la propria libera corrispondenza alla grazia di Dio, come ha sintetizzato sant’ Agostino: «Chi ha creato te senza di te, non salverà te senza di te».
Paolo VI nel documento Investigabiles divitias Christi, del 6 febbraio 1969, in occasione del bicentenario dell’istituzione della festa liturgica del Sacro Cuore, indicava il punto d’arrivo di questa devozione: «…per mezzo di una più intensa partecipazione al Sacramento dell'altare, sia onorato il Cuore di Gesù, il cui dono più grande è appunto l'Eucaristia», il più grande amore in cui si assommano tutti gli amori di Gesù per noi.
Continuando il nostro viaggio biblico, incontriamo Gedeone, un personaggio molto caratteristico: pieno di titubanze e di resistenze, pieno di domande e di obiezioni, non teme di contestare Dio, ma lo fa con quella schiettezza e quella spontaneità che non chiudono il dialogo e non spezzano l’amicizia, anzi, la approfondiscono e la rendono più forte e più vera.
Il momento della morte improvvisa della persona cara diventa nello stesso tempo il riconoscimento di una verità dolorosa: quanto l’altro fosse diventato parte di noi si può riconoscerlo purtroppo per lo più troppo tardi, dallo strappo interiore provocato dalla sua scomparsa. Ogni relazione rivela un aspetto, di sé e dell’altro, differente, e irripetibile. Tale unicità viene ricordata in maniera drammatica dalla sua scomparsa, come nota con acume Lewis: «Ora che Charles è morto, non vedrò più le reazioni di Ronald a una tipica battuta “da Charles”. Non è affatto vero che ora che Charles se n’è andato Ronald è più mio, in quanto è tutto “per me”; la verità, semmai, è che ora ho meno anche di Ronald…».
Spesso si apprezza il valore della persona amata solo quando ci è stata tolta, scoprendo in essa cose fino ad allora inaccessibili. Per questo la morte della persona amata diventa anche la propria morte, come nota Pirandello nella celebre Lettera alla madre. In realtà non è lei, ma è lui a essere morto perché non potrà più contare sul suo affetto, che gli dava calore e conforto. La madre invece continua a vivere nella mente e nel cuore dello scrittore.
Nello stesso tempo, la morte dell’altro può rivelare anche un aspetto dell’identità di chi rimane, un aspetto fino a quel momento ignoto a lui stesso, e conosciuto solo in forza di quell’evento tragico. Sono alcuni dei tanti aspetti paradossali del confronto tra morte e vita: una parte di noi muore alla morte degli altri, ma anche una parte di essi sopravvive in noi, e ci ricorda il nostro strutturale essere-in-comunione-con-loro.
Il legame inscindibile di morte e vita
I tentativi di rimozione della morte, speculativi, psicologici o pratici sono per lo più legati al fatto che essa viene a negare il senso che caratterizza la vita, e che è indispensabile per continuare a vivere. L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi che sa di dover morire; gli animali periscono, solo l’uomo muore. L’uomo è l’unico essere che avverte con acutezza questo stridente contrasto, la sua tensione alla vita e insieme la forza inesorabile della morte. È la caratteristica peculiare dell’angoscia vista sopra: essa nasce da una richiesta di pienezza, da una protesta di fronte al «furto» di essa compiuto dalla morte. Eppure l’angoscia, la domanda, la protesta non potrebbero sorgere se quella pienezza, quel senso, non fossero in qualche modo noti. Il negativo si mostra come pienezza mancata, e insieme come sua richiesta, motivata da una esperienza, da un sapere in qualche modo dato, anche se nel rinvio e nell’assenza espresse da un posto vuoto: «La stessa coscienza dell’estrema finitudine, lo stesso sentimento angoscioso della morte non potrebbero darsi, se non sullo sfondo d’una tensione che nasce dall’infinito e che, nell’immediato, deve tradursi appunto nello scandalo del silenzio irreversibile, nell’orrore o nella protesta che paventa il nulla» (V. Melchiorre).
È questa tensione a mettere in cerca di una possibile risposta, animati da una luce conosciuta. La perdita dell’amico, del genitore, di chi si è amato, non cancellano il valore e l’intensità di ciò che si è costruito insieme. Tale valore si rivela tuttavia sempre nel segno, nel dettaglio, lasciando la nostalgia di una pienezza mai pienamente data.
L’affermazione dell’uomo in termini di essere-per-la-morte, resa celebre da Heidegger, non può dunque essere associata al puro nulla. In tal caso infatti anche lo stesso interrogare svanirebbe. Anzi, non potrebbe neppure porsi. Il nostro pensare e agire è sempre all’interno dell’essere: la nozione del nulla lo presuppone. È lo stesso Heidegger a riconoscerlo: «Se, con una spiegazione semplicistica spacciamo il niente per ciò che è, rinunciamo troppo precipitosamente a pensare».
La morte dunque non solo può essere detta a partire dalla vita: essa anche parla alla vita, per questo è così dolorosa. In particolare ricorda che l’esistenza, nostra come quella di coloro che abbiamo amato, non può essere posseduta. Accettare questa precarietà non significa arrendersi al non senso, ma accogliere un sapere altro, di cui l’uomo non è la misura. La ricerca di senso rimane così continuamente attraversata dal paradosso: solo guardando in faccia alla morte, solo non possedendo, solo lasciando andare si può fare esperienza di vita e di presenza a noi dell’assente, sotto altra forma.
Questo è il significato proprio del lavoro del lutto.