di Giovanni Cucci
Ogni negazione, e in modo particolare la negazione della morte, parla pur sempre di ciò che nega e riafferma in forma più inquietante la sua innegabile presenza. È la radice di quello che Heidegger chiama «l’angoscia di morte», lo spaesamento di fronte al nulla, che si cerca disperatamente di riempire con l’attivismo, affrontando problematiche concrete, visibili e quindi in qualche modo gestibili. Il non sapere su questo tema è in realtà un non-voler-sapere, una difesa dall’angoscia e insieme l’affermazione della sovranità della vita: «Sono dei tentativi di sapere, oppure dei semplici modi di non voler sapere ciò che già si sa?» (Gadamer).
Il periodo pasquale, che come credenti stiamo vivendo in questo mese, è un richiamo al destino finale della Resurrezione del nostro corpo, quando Cristo «consegnerà tutto al Padre» (1 Cor 15).
Benedetta da Dio, la discendenza di Abramo è feconda per grazia. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, i dodici capostipiti delle dodici tribù di Israele. Dopo il lungo pellegrinare di Abramo, questo primo nucleo del popolo eletto si stabilisce nella terra di Canaan ancora del tutto ignaro del proprio destino nel mirabile disegno di Dio a salvezza dell’umanità caduta nel peccato e perciò preda della morte.
Un tempo, nelle scuole – ma c’è chi lo fa ancora –, quando si trattava d'insegnare Dante, i professori parlavano dell'esegesi tradizionale delle Scritture, e dei loro «quattro sensi»: il letterale, il morale, l'allegorico, l'anagogico. Era un ottimo esercizio per allenarsi a leggere con attenzione, utile non soltanto per la Bibbia. E Gesù faceva spesso lezioni di questo genere.