Il lievito, la farina, il pane. Immagini pacifiche di una lontana civiltà contadina. E immagini sacrali, simboli che di continuo precorrono il Mistero. Il Vangelo si presenta sempre così: e, in quella donna che impasta il pane, noi vediamo in controluce già un accenno all'eucaristia. Ma il lievito - assente dalle specie visibili del sacramento eucaristico nella tradizione occidentale; presente invece in quelle delle Chiese orientali - è ancora una volta il regno dei cieli, inteso non tanto come realtà escatologica quanto piuttosto come presenza reale, sostanza della fede di chiunque crede e vuol vivere il messaggio cristiano. In questo senso - senza immanentismi o millenarismi di sorta - possiamo dire che il regno dei cieli è già qui, fra noi e con noi.
La persona si trova a confronto con qualcosa di inaspettato e di critico, senza quasi rendersene conto all’inizio. La prima istintiva reazione è di negare tutto ciò cercando di continuare il corso della vita ordinaria cui si è troppo abituati. Si fa di tutto per non vedere quanto è capitato. È una fase che può durare da pochi minuti (nel caso della notizia della morte improvvisa di una persona cara) a giornate, settimane o mesi. Si cerca di prendere la distanza con ciò che è capitato, di isolarlo, di non permettere che intacchi il corso abitudinario della propria vita. È come se si trattenesse il respiro per rendersi conto se quanto sta capitando sia un sogno o la realtà.
È evidente che però non si può non fare i conti con quanto accaduto, la malattia progressiva, propria o di una persona cara, la notizia di una morte improvvisa, l’abbandono di un familiare, una grave perdita, lavorativa, finanziaria.
A questo punto si lotta perché non sia così, si portano argomenti e motivazioni per non arrendersi all’evidenza; questa modalità è una maniera di non perdere del tutto la speranza, e ci si aggrappa a qualunque cosa possa mantenerla viva. Un elemento importante in questa fase, ma comunque in tutte le fasi, è che la persona non si isoli, non si chiuda nei suoi pensieri ed elaborazioni; oltre che un possibile sostegno questo rapporto può alimentare la fiducia ed il confronto.
Nonostante tutto, parlare della situazione reale costituisce un aiuto illuminante, in quanto mette in relazione la constatazione razionale e lo stato emotivo. Qui la disponibilità di chi è colpito rappresenta una premessa decisiva: egli deve inviare il segnale di voler parlare in modo chiarificatorio; solo così è possibile la scoperta personale della verità. Essa può essere accolta, nel senso di “parlarne”.
Questa fase segna il passaggio alla presa di contatto con le emozioni. Se finora la persona cercava nuove informazioni, discuteva sulle eventualità di poter padroneggiare la nuova situazione, ora si trova impotente di fronte all’evidenza del problema e a questo punto emerge la protesta, la rabbia, la ribellione nei confronti di quanto accaduto, e insieme diventa un grido di supplica di non vedersi portare via ciò che ha di più prezioso per la propria vita. La persona si sente come presa di mira dalla sventura che si è accanita contro di lei ed esplode con il grido di sofferenza e protesta ben conosciuto e comprensibile: “perché tutto questo è capitato proprio a me? Cosa ho fatto di male?”. Questa rabbia può esplodere all’improvviso nella maniera più inaspettata e sorprendente ed avere perciò con facilità esiti drammatici ed imprevedibili, fino alla tragica conclusione con il suicidio.
In questo passaggio delicato dal razionale all’emotivo è ancora più decisivo che la persona non sia lasciata sola, se essa trova un riscontro anche aggressivo verso qualcuno ciò può aiutarla ad elaborarlo con più efficacia. La rabbia è infatti una forma di reazione, di forza e anche di speranza, per questo l’aggressività non va mai spenta.
Non potendo negare l’evidenza, il soggetto si butta disperatamente a provare ogni possibilità in cui possa trovare una soluzione al problema, utilizzando tutte le risorse a disposizione, “naturali” (si fanno passare tutti i tipi di medici, cure medicinali convenzionali e alternative, pratiche e consulenze terapeutiche) e “soprannaturali” (pellegrinaggi, visite a santuari, e a santoni, voti di vario genere, offerte)…
Anche questo se da un lato può positivamente tenere impegnata la mente e l’affetto nel perseguire queste strade è sempre importante che si abbia qualcuno accanto, soprattutto quando giunge il momento tremendo della delusione, con la rassegnazione di doversi arrendere ad un nuovo livello, di fronte all’evidenza che non c’è speranza di guarire, che non sarà mai più come prima…
Esaurite tutte le possibilità a portata di mano, anche la persona si trova esaurita, forse tanto più quanto più si era spesa e consumata (anche economicamente) per trovare una soluzione. Nel rinunciare e nella paura per le minacciose rinunce future si delinea l’abbandono definitivo di tutti i tentativi di negare le perdite irrecuperabili, accompagnato da una sconfinata tristezza, la cosiddetta afflizione: essa funge da preparazione ad accettare il destino, contiene l’atteggiamento dell’inversione di tendenza, del raccoglimento interiore e dell’incontro con se stessi. Da questo ritrovarsi scaturisce la libertà di prendere le distanze da un’esperienza subita e di organizzare le future azioni necessarie. È l’inizio dello stadio finale. Da questo altre fasi vengono sperimentate, all’insegna del ritorno alla vita.
Di san Giuseppe i vangeli non danno molte notizie, limitandosi a registrare il suo silenzioso e concreto apporto agli inizi del grande mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, fino al raggiungimento dei dodici anni di età. Dopo il ritrovamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme, mentre conversava con i dottori, a Giuseppe si accenna appena quando Gesù è indicato come «figlio del carpentiere» (Mc 6, 3; Mt 13, 55).
Iniziando le sue Catechesi sulla speranza cristiana, papa Francesco tratteggiava con poche parole il panorama del nostro tempo. Un tempo – diceva (e non si può che concordare) – che appare oscuro, «in cui a volte ci sentiamo smarriti davanti al male e alla violenza che ci circondano, davanti al dolore di tanti nostri fratelli. Ci sentiamo anche un po’ scoraggiati, perché ci troviamo impotenti e ci sembra che questo buio non debba mai finire» (7 dicembre 2016). Tuttavia, proseguendo affermava che quanto più i tempi sono oscuri e difficili, tanto più il cristiano è chiamato ad offrire la testimonianza di una «speranza viva», di una speranza che non vacilla neppure davanti alle più grandi tragedie. Come è possibile? Si può sperare contro ogni speranza perché – affermava il Papa – «Dio con il suo amore cammina con noi».