Riferendosi a Giuseppe Lazzati, il cardinale Dionigi Tettamanzi riteneva che nella situazione odierna la Chiesa e la società avessero bisogno “di lasciarsi interpellare dalla sua testimonianza e riflettere sull’esempio che un fedele laico come lui è stato e ha voluto essere”.
Chi lo ha conosciuto lo descrive signorile nel tratto, senza però che le persone semplici provassero soggezione o titubanza nel trattare con lui. Il senso dell’amicizia lo rendeva attento ai bisogni altrui, così da rendersi anche presente agli avvenimenti lieti o tristi di quanti conosceva: cose, se si vuole, semplici e quotidiane, come una telefonata, un biglietto di auguri, il parlare “meneghino” nel dialogo con qualcuno che si esprimeva meglio in dialetto. Viveva quanto afferma la recente enciclica di papa Francesco sulla fede: “Il credente non è arrogante, al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi è essa che ci abbraccia e ci possiede”.
Il 25 gennaio 1959, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, Giovanni XXIII indice il Concilio Ecumenico Vaticano II. Da dove ha egli attinto il coraggio per affrontare così “pacatamente”, ma decisamente tanto colossale impresa?
Egli ci apre “una finestra nel suo cuore” nella Lettera Apostolica “Le voci”, scritta il 19 marzo 1961, nella quale porge a san Giuseppe, “attraverso le voci e i documenti dei nostri immediati antecessori dell’ultimo secolo, da Pio XI a Pio XII, un serto di onore, in eco alle testimonianze di affettuosa venerazione, che ormai si sollevano da tutte le nazioni cattoliche e da tutte le regioni missionarie”.
Interminabile, luminosa e intensa è stata la domenica di settembre che ha visto papa Francesco pellegrino a Cagliari. Erano circa 400mila persone arrivate da tutta la Sardegna per salutare e ascoltare le parole di papa Francesco che ha voluto onorare il santuario mariano di Bonaria legato alla capitale argentina Buenos Aires, eco della «buona-aria» portata dai navigatori sardi nei secoli passati.
Per gli operatori dei media passerà alla storia come “il comunicatore di Dio”, perché ha lasciato sicuramente un segno nel nostro tempo, con il suo stile ed il suo eloquio inconfondibili - tanto apprezzati da Indro Montanelli ed Enzo Biagi – che abbiamo ammirato sulla grande stampa nazionale, su “Avvenire” (lo considerava quasi una sua creatura) e nei talk-show della Rai.
Ma il cardinale Ersilio Tonini, morto qualche mese dopo il suo novantanovesimo compleanno (20 luglio), è stato anche un grande uomo di carità. Questo esile “pretino di campagna” dalla solida cultura e dalla formazione di stampo pacelliano acquisite in seminario e alla Lateranense, piacentino come molti diplomatici vaticani di gran stoffa (Casaroli in primis), nato da una modesta famiglia di contadini, fino all’ultimo ha speso tutte le sue energie per testimoniare con vigore il Vangelo della solidarietà.
Nella solennità della Trasfigurazione di trentacinque anni fa moriva Paolo VI dopo quindici anni di pontificato. Una stagione della storia della Chiesa assai complessa. Il Concilio ecumenico Vaticano II aveva aperto una diga di acque feconde. Giovanni XXIII era stato incaricato dallo Spirito Santo a una rinnovata incarnazione dello spirito di fede in un tessuto logoro. La Chiesa come istituzione era forte nella sua organizzazione, ma dopo la II Guerra mondiale aveva smarrito la sintonia con il respiro della gente; la Parola di Cristo non mordeva più la carne della storia umana, aveva perso il ruolo di bussola nell’orientamento del vivere quotidiano. La «strage inutile» della guerra, i campi di concentramento e di sterminio, il genocidio degli ebrei, degli zingari, degli handicappati e anche dei cristiani aveva acceso negli animi una domanda di fuoco: «Ma Dio dov’è?».
Nella memoria liturgica dei santi Gioacchino e Anna, papa Francesco ha fatto un grande elogio dei nonni di Gesù e ha indicato nei nonni un patrimonio di sapienza da non disperdere. «Quanto sono importanti nella vita della famiglia per comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni società! E come è importante l’incontro, il dialogo tra le generazioni, soprattutto all’interno della famiglia!».
Su un tema assai importante che sembra così lontano nella vita di un bambino, in questo ipotetico dialogo il nonno vuol indicare che i passi prima dell’ultimo passo sono assai importanti e conducono alla sorgente della gioia di vivere.
La luce della fede è il dono portato da Gesù. Lui è il dono; Lui è la luce. Inizia così la prima enciclica di papa Francesco che è anche – e non solo metaforicamente – l’ultima di Papa Benedetto.
Il nostro mondo, come quello pagano del tempo di Gesù, è “affamato di luce” e nessun altro sole è capace di “arrivare fino all’ombra della morte”, quando ogni uomo si chiude ad ogni luce. Invece a Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Chi crede, vede. Tante sono le possibili obiezioni, oggi come ieri, nella presunzione di uomini che si sentono adulti e inappagati, al punto di paragonare la fede al buio, o al massimo relegandola nell’angolo fuori dalla ragione, pur sempre un salto nel buio, appunto.
Il primo Papa gesuita nella storia arriva proprio durante la celebrazione del II centenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù dopo la soppressione. Mi auguro che questo dono che lo Spirito ha fatto a tutta la Chiesa, sia anche un’occasione per noi Gesuiti di riscoprire con rinnovato impegno che la fedeltà alla missione della Chiesa e al Romano Pontefice sono le radici vitali della nostra vocazione e la ragione d’essere per cui Ignazio volle la sua “minima Compagnia”.
Sembrano di grande attualità le parole di don Guanella scritte alla fine dell’800: «Riesce poi difficile mirare giusto in sì grande confusione di giornalisti, di scrittori. Per non sbagliare si guardi sempre al Papa, che è la stella polare. Egli solo basta». Nel giorno di mercoledì, dedicato dalla devozione popolare al culto di San Giuseppe, il 13 marzo 2013 lo Spirito Santo ha donato alla sua Chiesa il nuovo papa con il nome programmatico di Francesco.
Il Vangelo secondo Luca racconta che i pastori di Betlemme, dopo l’annuncio della nascita del Messia, “andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (2,16). Ai primi testimoni oculari della nascita di Gesù si presentò, dunque, la scena di una famiglia: madre, padre e figlio neonato. Per questo la Liturgia ci fa celebrare, nella prima domenica dopo il Natale, la festa della santa Famiglia. Quest’anno essa ricorre proprio all’indomani del Natale e, prevalendo su quella di santo Stefano, ci invita a contemplare questa “icona” in cui il piccolo Gesù appare al centro dell’affetto e delle premure dei suoi genitori.
di Gianni Gennari
“Per la nuova evangelizzazione”: grande davvero, il tema del recente Sinodo dei vescovi, il 22° dopo il Concilio. Per la precisione il XIII ordinario, detto “generale”, perché in questi 50 anni ce ne sono stati anche 9 detti “speciali”, con oggetto una sola parte della Chiesa: due volte Europa e Africa, una Asia, Americhe, Medioriente, Libano e Oceania.
Sinodo dei vescovi, dunque. Fu personalmente Paolo VI che il 21 settembre 1963, Papa da pochi mesi, manifestò per il futuro l’idea di “associare qualche rappresentante dell’episcopato in un certo modo e per certe questioni… al Capo supremo della Chiesa stessa”, e aggiunse di essere sicuro che “la Curia romana” non avrebbe fatto opposizione. Egli sapeva per esperienza personale che nella Curia allora, e forse sempre come naturale dove ci sono anche le dimensioni umane, che esistono anche nella Chiesa di Cristo, perfetta per quanto dipende da Lui, ma limitata per quanto dipende dagli uomini, poteva anche non esserci molta disponibilità, allora, ad allargare competenze e discussioni oltre i limiti consolidati da secoli.