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di Ottavio De Bertolis

Nei nostri incontri precedenti abbiamo contemplato quel fiume d’acqua viva che sgorga dal costato trafitto del Signore e abbiamo visto come in questa immagine del Vangelo di Giovanni riprenda vita quella pagina del profeta Ezechiele nella quale ci è presentato un fiume in piena che sgorga dal tempio, appunto «dal tempio del suo corpo» (Gv 2, 21).

Abbiamo anche iniziato ad accennare a come l’acqua viva sia simbolo dello Spirito Santo che è stato promesso. Di nuovo ci aiuta il profeta Ezechiele, in un testo molto famoso: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36, 25-26). Questo brano mostra lo stretto collegamento che esiste tra l’acqua viva, il dono dello Spirito e un “cuore nuovo”, che poi è quello del nuovo Adamo, cioè di Gesù Cristo; e non a caso è un brano spesso utilizzato nella liturgia per l’amministrazione del Battesimo, per la menzione dell’acqua viva che purifica, e della Confermazione, per il richiamo allo spirito nuovo che trasforma il cuore vecchio, o «di pietra», in uno nuovo, o «di carne». In effetti è facile dimostrare che per Giovanni la Pentecoste avviene proprio sotto la croce. Lì troviamo una comunità di credenti costituita dalla madre di Gesù, dalle donne e dal discepolo che Gesù amava, così come nella narrazione di Luca negli Atti degli Apostoli vediamo il dono dello Spirito compiersi a Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Risurrezione. Lo Spirito è il primo dono della morte di Cristo, del quale appunto è detto «E, chinato il capo, spirò» (Gv 19, 30). L’espressione «spirò» non significa infatti semplicemente che “morì”, anche se in italiano in effetti si dice, di uno che muore, che spira o esala l’ultimo respiro. Il respiro infatti, è il simbolo della vita, e lo Spirito, nell’Antico Testamento, è innanzitutto il respiro. Gesù, spirando, ci concede il suo respiro, la vita stessa di cui vive, perché non più noi viviamo, ma lui viva in noi (cfr. Gal 2, 20), e noi possiamo vivere come lui. L’espressione «spirò» dovrebbe infatti essere tradotta, letteralmente, con “consegnò lo spirito”. A chi? Al Padre, naturalmente, rendendogli o restituendogli la propria vita, ponendola cioè nelle sue mani, ma anche a noi. Quello “spirare” richiama infatti proprio la prima riga della Scrittura, il primo versetto del libro della Genesi, dove «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn, 1,1). Qui, sulle grandi acque che sembrano immergere e inghiottire Gesù, - le grandi acque del male e del peccato dell’uomo - si libra lo Spirito Santo, che attira a Lui tutta la storia, quella grande, del mondo intero, e quella piccola, quella cioè di tutti noi, adempiendo così la parola allorquando recita «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Lo Spirito rende infatti testimonianza a Gesù, presenta al nostro cuore le sue parole, ci muove a deciderci per Lui. Di più: fa di noi nuovi Cristi, rendendo la nostra vita simile alla sua, rendendoci capaci di scegliere e desiderare per noi quel che Lui per sé ha scelto e desiderato, salvandoci perciò dalla legge, che appare ineludibile, del peccato e della morte. Questo Spirito è a noi “meritato”, ottenuto dalla Passione; paradossalmente Dio si serve della morte di Gesù, causata da noi, dal nostro rifiuto, per riempirci di un’acqua viva e nuova, per dare a noi un cuore nuovo. Il Cuore di Cristo è stato aperto da un colpo di lancia, non dalle nostre opere buone. Dio ha usato uno strumento di offesa, il peccato, ciò che tutti ci accomuna, per lasciarsi così aprire il cuore, e rinnovarci nel suo Spirito Santo. Quel colpo di lancia, che ognuno di noi ha arrecato, è divenuto la chiave che apre il suo Cuore. 


 

A scuola di Gesù per imparare come si ama

In questo mese particolarmente dedicato al Sacro Cuore, l’ora santa vuole entrare nel suo insegnamento più profondo: l’umiltà e la mitezza. Pertanto possiamo fissare, come di consueto, il nostro tempo di preghiera, che coinciderà con il giovedì sera-notte, in memoria dell’agonia in Getsemani. Entriamo nella preghiera, alla scuola di sant’Ignazio, innanzitutto distaccandoci mentalmente dalle nostre occupazioni abituali, e considerando a Chi stiamo andando a parlare e che cosa vogliamo chiedergli: così, fisicamente entriamo nella nostra stanza ove vogliamo pregare, o nella cappella.


Qui, in piedi, stiamo qualche attimo in silenzio, offrendo a Gesù la nostra preghiera in riparazione dei peccati nostri e del mondo intero, unendoci alla sua preghiera nell’orto degli ulivi, accogliendo con amore il suo invito a vegliare e pregare. Quindi possiamo sedere e immaginare di avere di fronte a noi Cristo stesso come maestro amorosissimo che ci invita ad ascoltarlo, e con noi tutti gli uomini. Possiamo immaginare il luogo o ambiente in cui ci invita e Lui stesso, se in piedi o seduto, e noi accanto a Lui, cercando quasi di entrare in una scena del Vangelo, come se noi fossimo lì davanti a Lui, perché pregando nel mistero di fatto ci immergiamo. Ascolterò come Cristo Signore dice a me in modo particolare: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò sollievo. Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime». Ascoltiamo la sua parola e la ripetiamo, anche molte volte, lasciando che questa cali nella profondità del nostro cuore. Ci verranno in mente molte situazioni, molte persone o fatti: lasciamo che la parola che ascoltiamo entri in tutto ciò. A quel punto possiamo iniziare a interrogarci: che cosa mi turba? Che cosa mi affatica? Che cosa mi opprime? Andiamo da Gesù con questi pesi e poniamoli ai suoi piedi: parliamo di questi con Lui, come un amico parla a un amico, ora chiedendo consiglio, ora supplicando aiuto, ora chiedendo perdono. Pensiamo alla vita di Gesù: che cosa ci direbbe vedendoci nella nostra condizione? Che cosa ci dice la sua Passione? Che cosa ci insegnano le sue parole? Chiediamo alla luce dello Spirito Santo che ci ricordi le parole di Gesù e ce le faccia sentire Intimamente, come la risposta ai nostri problemi. Rimaniamo lì, sentendo e gustando intimamente. Ascoltiamo poi la parola che più di tutte rispecchia il suo Cuore: umiltà. E’ umile chi perdona, chi rinuncia alla vendetta, chi risponde al male con il bene, cioè chi è mite. Possiamo ripetere anche a lungo la ben nota preghiera «Gesù, mite e umile di cuore, rendi il mio cuore simile al tuo». La ripetiamo a lungo, come una sorta di litania, calando sempre queste parole nella situazione concreta che mi appesantisce od opprime. In questa condizione rimarrò per un’ora, lasciandomi guidare dallo Spirito, e mi soffermerò maggiormente ove ho sentito intima consolazione. Al termine, uscirò dalla preghiera recitando un Padre nostro.