«C’è un modo sbagliato di guardare la morte. La morte ci riguarda tutti, ci interroga in modo profondo, specialmente quando ci tocca da vicino, o quando colpisce i piccoli, gli indifesi in una maniera che ci risulta ‘scandalosa’. A me sempre ha colpito la domanda: perché soffrono i bambini?, perché muoiono i bambini? Se viene intesa come la fine di tutto, la morte spaventa, atterrisce, si trasforma in minaccia che infrange ogni sogno, ogni prospettiva, che spezza ogni relazione e interrompe ogni cammino. Questo capita quando consideriamo la nostra vita come un tempo rinchiuso tra due poli: la nascita e la morte; quando non crediamo in un orizzonte che va oltre quello della vita presente; quando si vive come se Dio non esistesse.
La collaboratrice della rivista La Santa Crociata in onore di San Giuseppe, la dott.ssa Stefania Severi, in questi giorni è stata intervistata da Radio Vaticana per presentare il nostro Calendario 2014, raffigurante le formelle del portone bronzeo della Basilica di San Giuseppe al Trionfale. Ne riportiamo l'intervista audio.
La morte e il morire sono due realtà che la nostra società tende ad accantonare dimenticando che l’amore e la morte sono le lettere dell’alfabeto con cui si declina l’esistenza umana. Dal primo lutto dell’umanità la morte è diventata enigma che turba la coscienza di tutti e proietta nei giorni dell’esistenza un cono di fitta ombra che diventa per alcuni una prospettiva angosciante e, per chi ha fede, un parto alla luce di Dio dopo una prolungata gestazione nell’arco della vita.
Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti: questo è il mio ultimo, intimo saluto.
Lo sento, Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell’importanza della buona morte.
Morire è certo per noi tutti un passaggio ineludibile, come d’altro canto il nascere e, come la gravidanza dà, ogni giorno, piccoli nuovi segni della formazione di una vita, anche la morte si annuncia spesso da lontano. Anche tu la sentivi avvicinare e ce lo ripetevi, tanto che per questo, a volte, ti prendevamo affettuosamente in giro. Poi le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno. Avevi paura non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia.
Una giovane donna, Chiara Corbella (28 anni), e suo marito Enrico Petrillo. Entrambi romani, una coppia normalissima molto credente, tanto che si erano conosciuti a Medjugorie. Una storia cresciuta nel dolore e finita male, malissimo.
Chiara non c'è più. È morta il 13 giugno scorso. Ha affrontato due gravidanze, entrambe terminate con la morte alla nascita dei suoi piccoli.
Maria prima e Davide dopo, entrambi vittime di malformazioni che non lasciano loro scampo. Chiara resta ancora incinta. È un maschio, Francesco. Questa volta tutto stava andando per il meglio: le ecografie confermavano finalmente la salute del bimbo. La sfortuna sembrava essersi voltata da un'altra parte. E invece no.
Al quinto mese di gravidanza a Chiara viene diagnosticata una brutta lesione della lingua e dopo un primo intervento, i medici riscontrano un carcinoma. Va curato con la chemio, ma la chemio ucciderebbe il feto. Dinanzi a questa eventualità, Chiara ed Enrico decidono di andare avanti con la gravidanza mettendo a rischio la vita della mamma.
«Le persone con disabilità possono essere felici». A Mario Melazzini, già primario ospedaliero, ammalato di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e oggi Presidente nazionale dell’Aisla, l’associazione per la ricerca sulla Sla, abbiamo chiesto una riflessione sul vivere odierno nella disailità, a partire anche dalla sua esperienza personale. «Nella nostra società vivere con una malattia grave o con una disabilità - così esordisce Melazzini - crea angoscia e si fa di tutto per allontanarne il pensiero, o nel caso in cui dovesse arrivare davvero, per allontanare la situazione.
Quando, poco più di un anno fa, mi hanno scoperto il tumore, la prima cosa che ho fatto è stata di ringraziare Dio per i 73 anni di salute che mi aveva concesso e quindi mi sono messo nelle sue mani. Un nostro religioso mi chiese se vivevo in una notte oscura questa prova che il Signore mi aveva mandato. Gli risposi… della notte oscura, niente. Piuttosto, che avevo una specie di assenza di sentimenti e l’impressione di un vuoto, ma nella pace. Inoltre è cresciuta in me la convinzione che la cosa migliore, come diceva Edith Stein, è di lasciarci guidare dal Signore.
Se un giorno mi vedrai vecchio: se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi... abbi pazienza, ricorda... il tempo che ho trascorso ad insegnartelo.
Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere... ascoltami, quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.
Quando non voglio lavarmi non biasimarmi e non farmi vergognare... ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.
“Nell’accoglienza generosa e amorevole di ogni vita umana, soprattutto di quella debole e malata, il cristiano esprime un aspetto importante della propria testimonianza evangelica, sull’esempio di Cristo, che si è chinato sulle sofferenze materiali e spirituali dell’uomo per guarirle”.
Lo scrive Benedetto XVI, che nel Messaggio per la XX Giornata mondiale del Malato – in programma l’11 febbraio, sul tema: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19) – si sofferma sui “sacramenti di guarigione”, cioè sul sacramento della Penitenza e della Riconciliazione, e su quello dell’Unzione degli Infermi, che hanno il loro “naturale compimento” nell’Eucaristia.