Siamo arrivati alla fine del Decalogo, e uniamo gli ultimi due comandamenti, o parole, quelli che tradizionalmente vanno sotto una sorta di duplicazione: “non desiderare la donna d’altri”, e “non desiderare la roba d’altri”. Li unifichiamo in un unico “non desiderare”, che è una sorta di minimo comune denominatore.
Per iniziare a chiarirci il senso di questa Parola, dobbiamo innanzi tutto distinguere tra “desideri” e “voglie”, o capricci. Il desiderio è qualcosa di profondo, che scolpisce la nostra identità e che costituisce ciò per cui Iddio ci ha creati: così uno può desiderare studiare fisica, o fare l’astronauta, o diventare papà, o consacrarsi a Dio. Questi tipi di desideri dicono la nostra vocazione stessa: ogni altro tipo di esperienza sarà meno significativo e importante per chi li vive, e verosimilmente questi desideri rimarranno profondamente radicati in noi, superando ogni prova contraria o avversa. Potrà essere difficile restarvi fedeli, ma non è impossibile, e la fatica fatta in questo senso contribuirà a farci sentire noi stessi, autori e protagonisti delle nostre scelte. Il vero desiderio è indelebile, proprio perché, in ultima analisi, viene da Dio.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle dieci parole che ci rendono liberi. Il settimo comandamento dice: “non rubare”, e con questo ognuno di noi si sente esentato da ogni colpa. Infatti nessuno di noi è mai andato a rapinare una banca, o a borseggiare le vecchiette sull’autobus. Ma è evidente che il comandamento, o, meglio, la parola, ha un significato ben più pregnante.
Innanzitutto, vorrei osservare che se ne parla abbastanza poco. Di fatto, mentre il sesto comandamento, quello sulla castità, è sentito come veramente obbligante, una sorta di spauracchio dal quale dipende o no l’essere in stato di grazia, sul settimo si sorvola abbastanza, come se al Signore non fossero gradite le virtù “pubbliche”, ma solo quelle “private”.
A conclusione di queste riflessioni sul sesto comandamento, possiamo quindi dire alcune cose molto semplici. Innanzi tutto, che la sessualità è un impulso molto potente in ognuno, e che quindi deve essere ben vissuto, perché questa forza deve essere ben incanalata: non si tratta quindi di negarla o reprimerla – si farebbe solo peggio – ma di integrarla in un contesto di vita pienamente umana, di relazioni affettive e profonde e non false o illusorie. Insomma, il sesto comandamento ci invita ad imparare ad amare, perché, nonostante il fatto che tutti ne siamo “naturalmente” capaci, questo non significa che ci riesca sempre bene. In fondo, dobbiamo dire che anche l'amore, come qualunque altra realtà umana, ha bisogno di essere redento: ed è questo del resto il senso profondo del sacramento del matrimonio, che è volto a liberare la coppia da ambiguità o distorsioni che sempre possono sorgere in questa relazione.
Abbiamo già accennato al senso profondo del sesto comandamento, che non è quello di reprimere, ma di liberare la nostra affettività e la nostra stessa sessualità. Infatti è evidente che queste pulsioni possono essere disordinate e essere vissute in modo distruttivo, cioè non umano, ma semplicemente animale: vissute così, non sono nemmeno appaganti, proprio perché l'amore non è una semplice meccanica di organi, ma un accordo di anime, o, se preferite, di cuori. Ognuno di noi, sposato o no, laico o sacerdote, è segnato dal bisogno profondo di amare ed essere amato: se si pensasse che la castità consista nel sopprimere questo, si sarebbe completamente fuori strada. In questo senso, come accennavamo, il sesto comandamento non ci insegna a reprimere, ma ad integrare e a vivere più pienamente il mondo dei nostri affetti, perché è invece possibile viverli malamente o “di meno”.
Siamo arrivati così alla trattazione del sesto comandamento, di fronte al quale tutti, fin dall'adolescenza, ci sentiamo un po' impauriti. Ed è un peccato essere impauriti, perché questo comandamento, come del resto tutti gli altri, non vuole essere uno spauracchio o imporre dei pesi che non possiamo portare, ma piuttosto aprire la nostra mente ed il nostro cuore ad una dimensione importante della nostra vita, qui l'affettività e la sessualità, pulsioni interiori profondissime in ciascuno di noi. Il senso quindi del comandamento non è: “stai attento a quel che fai, perché qui c'è sempre e solo peccato mortale”, ma piuttosto “impara a vivere da vero uomo”, cioè non da angelo asessuato, quale non siamo, ma nemmeno da bestia, quali non siamo, ma potremmo diventare.
Proseguiamo la nostra riflessione sulla quinta parola del Decalogo: non uccidere. Abbiamo già visto che “uccidere” qui dice la relazione con l’altro resa spezzata o deformata dalla violenza. In estrema sintesi, potremmo dire che “uccidere” si verifica tutte le volte che un altro viene cancellato dalla nostra vita. Ancora, abbiamo osservato che la fraternità che il comandamento ci impegna a vivere non è un rapporto a due, io e il mio amico, ma un rapporto a tre: io, l’altro e Colui che ci ha posti l’uno accanto all’altro. In questo senso, per risanare le ferite nelle nostre relazioni interpersonali dobbiamo guardare a questo terzo soggetto, Iddio, che ha amato entrambi per primo condonando a ognuno ogni debito: possiamo quindi accoglierci gli uni gli altri, come Lui ci ha accolto.