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Mercoledì, 26 Giugno 2013 13:00

Il sacerdote prolunga la presenza di Cristo Featured

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di Madre Anna Maria Cánopi

Come abbiamo già avuto modo di vedere, i documenti conciliari trattando i vari ambiti della Chiesa, mettono in chiara evidenza la caratteristica comunionale della vita cristiana.  In forza del battesimo, la persona – che già a livello semplicemente naturale esiste solo se è in relazione vitale con gli altri – entra a far parte di una nuova famiglia di ordine soprannaturale. Elemento costitutivo della famiglia dei figli di Dio –– è la comune vocazione alla santità. In quanto cristiani, dunque, abbiamo tutti davanti un’unica mèta, un fine meraviglioso, che dovrebbe ogni giorno dare slancio alla nostra vita: l’anelito alla piena comunione con Dio, attraverso la progressiva conformazione a Cristo, il Figlio che si è fatto uomo, nostro Fratello, per mostrarci il Volto del Padre e condurci  a Lui.

Come nelle famiglie ogni membro ha una sua propria fisionomia e un suo specifico compito, così nella Chiesa ciascuno riceve, all’interno della vocazione comune, la chiamata a conformarsi al Cristo in un determinato modo, corrispondente al proprio stato di vita.
Nel proemio del decreto Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri si afferma che essi hanno nella Chiesa un compito estremamente importante, reso arduo dall’attuale contesto sociale. Proprio questo ha spinto i Padri conciliari a dedicare ai presbiteri un apposito decreto, nel quale emerge una parola fondamentale: servizio. Essi sono «promossi al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re»: servire, infatti, è un onore; «partecipano al suo ministero»: non per qualità e capacità proprie di cui potrebbero vantarsi, ma solo per dono di Dio. Fondamentale è, dunque, che essi abbiano un atteggiamento di profonda umiltà.
Chi, d’altronde, più del prete deve impegnarsi nella santità, dal momento che, specialmente celebrando l’Eucaristia, agisce in persona Christi? Se c’è un cristiano che deve essere necessariamente un “altro Cristo” in modo quasi visibile, tangibile, è proprio il prete.
La necessità di tale conformazione scaturisce innanzitutto dalla sua realtà di battezzato: «Già fin dalla consacrazione del battesimo, essi, come tutti i fedeli, hanno ricevuto il segno e il dono di una vocazione e di una grazia così grande che, pur nell’umana debolezza, possono tendere alla perfezione, anzi debbono tendervi secondo quanto ha detto il Signore: “Siate dunque perfetti così come il Padre vostro celeste è perfetto” (Mt 5,48)» (PO 12).  Il sacerdote, perciò, dovrà in primo luogo conformarsi a Cristo come Figlio di Dio, guardando a Gesù nella sua relazione filiale con il Padre.
Che cosa comporta questo? Nella Lettera agli Ebrei sta scritto: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà» (cf. Eb 10,5-7). Questo è l’atteg­gia­mento che compendia tutta l’esistenza terrena del Verbo Incarnato, dall’infanzia all’ultimo respiro sulla croce, dove, prima di morire, ancora di­ce: «È compiuto» (Gv 19,30) e infine: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 26,46). Sul suo esempio, il presbitero, consapevole che il ministero a lui affidato supera infinitamente le sue possibilità, nulla fa secondo il proprio giudizio e la propria volontà, ma – dice il Concilio con un’immagine molto forte – «lavora con umiltà, cercando di sapere ciò che è gradito a Dio; come se avesse mani e piedi legati dallo Spirito, si fa condurre in ogni cosa dalla volontà di colui che vuole che tutti gli uomini siano salvi» (PO 15).
Questa volontà la va scoprendo nella preghiera e nella lettura assidua della Parola – che prima di predicare agli altri ascolta per sé –, ma gli si rivela anche «servendo umilmente tutti coloro che gli sono affidati da Dio» (Ibidem), quasi a dire che, come il presbitero è punto di riferimento per i fedeli, ponte di unione tra loro e il Signore, così anche il popolo di Dio “forma” i suoi presbiteri: lasciandosi educare e guidare, li spinge sempre di più a mettersi in ascolto del Signore, a farsi per loro buon Pastore, Medico, Maestro…
Il sacerdote, che prima di tutto si impegna ad essere «strumento vivo di Cristo eterno sacerdote» (PO 12), stando in mezzo ai fedeli a lui affidati mostra loro in se stesso quale grande dono sia l’essere divenuti nel Battesimo figli nel Figlio, e come, di conseguenza, ci si debba comportare per non disprezzare, anzi, per rendere fecondo il dono ricevuto.
Il sacerdote, inoltre, è chiamato a conformarsi con particolare intensità al Cristo Servo sofferente. Gesù è Servo del Padre nel senso che è totalmente dedicato al compimento del disegno di salvezza che Egli ha concepito per l’umanità. Questo atteggiamento di obbedienza, che è dono totale di sé senza riserve, lo porta fino alla croce. L’intera vita di Gesù, infatti, è servizio d’amore: egli è venuto «non per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28), fino all’Ultima Cena, quando, con la lavanda dei piedi, dà l’esempio supremo dell’umile servizio nella carità e invita “i suoi” ad imitarlo: «Avete visto quello che ho fatto? Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,12.15).
La perfetta coerenza di Gesù consiste nel fatto che egli, essendo vero Figlio, è anche Servo obbediente del Padre, a lui consacrato, cioè dedicato esclusivamente al suo servizio, al compimento della sua volontà. Tutta l’esistenza di Gesù ha questo scopo. È mandato nel mondo per questo.  Allo stesso modo, il sacerdote è prelevato dal popolo e consacrato per il popolo per perpetuare l’opera di Cristo. Il documento conciliare insiste con forza su questo aspetto che, ancora una volta, fa del sacerdote una persona totalmente espropriata di sé, tutta del Signore e tutta del popolo di Dio: «I presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio» (PO 3), vale a dire nell’annunzio del Vangelo, nell’amministrazione dei sacramenti, nell’educazione cristiana del popolo di Dio. In forza della loro vocazione, i presbiteri si trovano ad essere al tempo stesso «segregati in seno al popolo di Dio» e totalmente immersi in esso per comunicare quella «vita diversa», vita divina, di cui il sacramento dell’Ordine li ha resi partecipi. È, la loro, una posizione estremamente delicata e difficile che richiede una grande vigilanza: Gesù rende i presbiteri, come gli apostoli, partecipi della sua stessa missione, della sua consacrazione per tutti gli uomini. È proprio questa partecipazione a rendere possibile l’esistenza del sacerdote, che non deve far altro che comunicare la via di Cristo. Per questo è necessario che sia sempre intimamente unito a Lui, per attingere, come tralcio dalla vite, la linfa vitale che lo fa fruttificare (cf. Gv 15,16).
Tale frutto è però insidiato dal nemico; perciò, come Gesù ha affrontato la resistenza del mondo delle tenebre, così i presbiteri devono – più di tutti gli altri  discepoli e a loro sostegno e modello – affrontare, con il coraggio della fede e l’ardore della carità, l’ostilità del mondo, che non è sempre scoperta e riconoscibile, ma spesso nascosta e insidiosa, quindi anche più temibile.  Esiste di fatto – soprattutto nella nostra società in cui il maligno si è insinuato – un’insidia più pericolosa dell’inimicizia dichiarata. Essa consiste nell’apparente “amicizia” che il mondo mostra al sacerdote, portandolo al compromesso con la mentalità corrente, facendolo suo con arti ingannevoli, convincendolo di dover essere più adeguato ai tempi nuovi. Se si è veramente di Cristo, inevitabilmente si trovano ostacoli a vivere nel mondo, perché esso ha un’altra logica. Purtroppo è facile farsi contagiare dalla mentalità mondana, dal clima che si respira. Ma ciò porta – come la storia drammaticamente attesta – a gravissime cadute che danneggiano la persona del presbitero e sono di scandalo ai fedeli. Non ci si può aspettare amicizia vera dal mondo. Purtroppo, se ci si lascia catturare dalla sua logica, non solo si diventa spiritualmente sterili, ma a poco a poco si precipita nel baratro, trascinando con sé molti altri. Gli scandali emersi nella Chiesa in questi ultimi anni sono una dolorosa ferita ancora sanguinante che insegna quanto siano necessari il combattimento spirituale e l’ascesi per custodire integro il dono ricevuto con la vocazione.
A questo aspetto fondamentale il decreto Presbyterorum ordinis dedica l’intero terzo capitolo, La vita dei presbiteri. In esso si afferma: «L’esercizio della funzione sacerdotale esige e favorisce la santità». Per essere veramente fedele a Cristo e prolungare la sua missione, il sacerdote deve confessare con la propria vita, riproducendolo in sé, il Cristo stesso. Deve quindi vivere come Lui nell’umiltà e nell’obbedienza, ossia «in quella disposizione di animo per cui sempre sono pronti a cercare non la soddisfazione dei propri desideri, ma il compimento della volontà  di colui che li ha inviati» (PO 15); nel celibato «dono prezioso», che lo unisce a Dio con cuore indiviso (cf. PO 16); nella povertà che lo rende libero da «ogni disordinata preoccupazione» e più facilmente attento «all’ascolto della voce di Dio nella vita di tutti i giorni» (cf. PO 17); nella carità, in quella  più grande carità che lo porta a consumarsi continuamente per gli altri e a fare dono di sé per il gregge che gli è affidato. Infatti «nella loro qualità di ministri della liturgia, e soprattutto nel sacrificio della Messa, i presbiteri rappresentano in modo speciale Cristo in persona, il quale si è offerto come vittima per santificare gli uomini; sono pertanto invitati a imitare ciò che compiono» (PO 13).
Un presbitero deve essere veramente ciò che il suo nome significa, cioè un uomo maturo, una limpida icona di Cristo. I fedeli – e i giovani in particolare – hanno bisogno di qualcuno che faccia loro percepire il fascino spirituale della presenza di Cristo. Il sacerdote non dovrebbe mai essere considerato una “persona qualsiasi”. Anche quando non è sull’altare, anche quando sta in mezzo agli altri con semplicità, è sempre il “consacrato del Signore”, perché il sacramento dell’Ordine conferisce davvero una nuova realtà ontologica alla persona. Fin da bambina ho avuto la grazia e la gioia di vedere così i sacerdoti e di nutrire verso di loro una venerazione e una fiducia sconfinata, proprio riconoscendo in essi Gesù. Ciò che il Concilio Vaticano II ha evidenziato, ha accresciuto la mia gratitudine e la mia gioia. Per poter corrispondere alla sua vocazione, il presbitero ha innanzitutto bisogno di coltivare la propria vita di unione con Cristo, vale a dire essere un uomo di preghiera e di ascolto. La Sacra Scrittura deve diventare il suo sangue, la linfa della sua vita. Sull’esempio di Gesù, egli sta in mezzo alla gente sempre con lo sguardo del cuore rivolto al cielo, al Padre celeste, che egli supplica come intercessore e loda come glorificatore. Vivendo così, diventa segno vivente di quel mondo futuro cui tende l’umano pellegrinaggio. Vigilanti nella notte del mondo, i sacerdoti, come Abramo, camminano nella fede; spargendo a larghe mani il seme del Vangelo in terra arida, testimoniano la loro speranza; andando a cercare nei dirupi le pecorelle smarrite, si lasciano sospingere dalla carità. La santità sacerdotale è frutto di questo stile di vita che diventa comunione profonda con Gesù e con i fratelli e che continuamente mette il prete nella situazione di consumare la propria vita fino all’ultimo, senza risparmio. La carità che ha spinto Gesù ad abbracciare la Croce, mette sulla croce, ogni giorno, anche il sacerdote. Lo crocifigge per la salvezza delle anime che gli sono affidate. La sua gioia più grande scaturisce proprio dalla sua totale appartenenza al Signore e dal vivere in pienezza il suo ministero.

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