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Giovedì, 07 Novembre 2013 15:22

Il venerabile Aurelio Bacciarini Featured

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di Luciano Mediolani

La fede nell'eternità come fonte di vita nel pellegrinaggio terreno

 

La stagione pastorale di mons. Bacciarini fu assai complessa. Sulla Confederazione elvetica soffiava il vento gelido della dimenticanza di Dio, l’avversione manifesta nei confronti della Chiesa. Nei primi anni del 1900, la Svizzera era diventata il rifugio di molte teste calde. Alcuni protagonisti della rivoluzione sovietica avevano soggiornato in Svizzera. Nella diocesi di Lugano, alle pendici del «Monte della verità», si era instaurata una comunità di nudisti. Un mondo di falsi idoli stava minando il patrimonio di fede costruito da una secolare tradizione con una figura emergente come il santo laico eremita Nicola di Flüe.

Mons. Bacciarini, a poco più di un anno dalla sua elezione a vescovo della diocesi di Lugano, per la Quaresima del 1918 invia la sua seconda lettera pastorale in cui annuncia una caduta verticale della pratica della fede. Il suo è un accorato appello alla memoria e un invito alla pratica della fede della popolazione più anziana.

Scriveva, infatti: «Durante la visita pastorale che vado compiendo nella Diocesi, ho trovato, specialmente nelle valli spopolate dall’emigrazione, terre, un giorno fiorenti, diventate meste come il deserto: le case cadenti e chiuse: pochi abitanti, poveri vecchi, viventi più di lacrime che di pane, attorno al focolare desolato: io ho pianto più di una volta su quei focolari spenti, su quella vecchiaia abbandonata, venerabile come il dolore, su quelle terre vedovate e belle. Ma con quanto maggior dolore ho pianto, dove ho trovato le case senza timor di Dio e con me piangeva la chiesa, piangeva l’altare e piangevano le croci dei morti!

Quante volte ho esultato invece di gaudio inenarrabile quando ho trovato paesi che sono ancora vasi deliziosi del bene, nidi santi del timore di Dio, giardini profumati dall’olezzo delle fedi dei padri nostri!

Ah perché tutto il caro nostro Ticino non ha conservato un’eredità così preziosa e santa? E perché tutto il nostro popolo non farà ritorno alla strada giusta dei nostri morti, alla loro vita di fede, ai loro costumi intemerati?».

Il mondo culturale di allora già stava rubando la speranza dell’immortalità nel cuore dei credenti, le anime stavano perdendo la luce della fede, una mesta cecità interiore aveva fatto smarrire l’orizzonte della speranza. In quella palude crepuscolare, pur con gli occhi velati di lacrime, mons. Bacciarini non si perde d’animo, sta accanto al suo popolo, rilancia la speranza e indica la sorgente da cui attingere la forza della perseveranza nel credere alla bontà di Dio.

Bacciarini avvertiva di avere sulle sue fragili spalle un mondo che stava cambiando, lasciando nello sgomento le persone anziane. Con la sua presenza nelle parrocchie, la sua azione caritativa sui luoghi del disagio, l’impegno per l’Azione cattolica, quello nella catechesi, la crescita del sindacato cristiano, Bacciarini coltivava un patrimonio di fede che era parte viva della storia di quella terra santificata anche dall’impegno pastorale di San Carlo.

In quella lettera pastorale della Quaresima suggeriva ai suoi diocesani un argine formidabile per non disperdere il fiume della grazia divina, la forza era la famiglia come un’oasi di preghiera e «una scuola per l’anima»; e lanciava il monito di Sant’Agostino: «Ha imparato a ben vivere chi ha imparato a ben pregare».

Pur nella nebbia di un ateismo dilagante, il vescovo Aurelio rilanciava la sfida scrivendo: «La civiltà senza Dio, che pretende di aver rinnovato il mondo, non ha trovato nulla che eguaglia lo spettacolo di una famiglia inginocchiata davanti a Dio nell’armonia sublime della preghiera».

L’appello all’eternità e ai defunti era costante sulle labbra del Venerabile Aurelio; in quella lettera quaresimale rammentava «la voce dei nostri morti dalla soglia dell’eternità reclamano che si potesse tornare ai loro esempi».

Radicalmente convinto che il futuro ha le radici nel passato, terminava la lettera con queste parole:«Diocesani carissimi, camminate sui sentieri dei vostri padri, che vissero accanto a Dio e videro i loro angeli scrivere sul letto dove morirono e sulle tombe dove riposano, la parola preludio del premio eterno: “Beati i morti che muoiono nel Signore”».

E per tutti auspicava: «Oh bella speranza dei veri cristiani, dei veri figli di Dio, la speranza del paradiso, che Dio promette ed assicura a tutti quelli che in questa vita lo amano e lo servono ! – Speriamolo anche noi, o miei cari, speriamolo il paradiso, e questa speranza ci consoli in tutte le croci della nostra vita addolorata».

Dopo aver ricordato che bisogna sfuggire ai due eccessi opposti: la disperazione e la presunzione di salvarsi senza merito, ripeteva le parole del vecchio e santo Tobia: «Non lasciamoci atterrire dalle tribolazioni della vita: dopo questa vita ve ne è un’altra che non è soggetta a dolori e infermità […] viviamo lontani dal peccato, operiamo bene, e siamo certi che verrà il giorno in cui saremo ricolmi di felicità».

Per ognuno c’è sempre una preghiera: «Padre, aiuta questo nostro cuore incredulo e così potremo assaporare la gioia».

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