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Giovedì, 07 Novembre 2013 14:57

Paolo VI. Trentacinque anni dopo Featured

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di Angelo Forti

Nella solennità della Trasfigurazione di trentacinque anni fa moriva Paolo VI dopo quindici anni di pontificato. Una stagione della storia della Chiesa assai complessa. Il Concilio ecumenico Vaticano II aveva aperto una diga di acque feconde. Giovanni XXIII era stato incaricato dallo Spirito Santo a una rinnovata incarnazione dello spirito di fede in un tessuto logoro. La Chiesa come istituzione era forte nella sua organizzazione, ma dopo la II Guerra mondiale aveva smarrito la sintonia con il respiro della gente; la Parola di Cristo non mordeva più la carne della storia umana, aveva perso il ruolo di bussola nell’orientamento del vivere quotidiano. La «strage inutile» della guerra, i campi di concentramento e di sterminio, il genocidio degli ebrei, degli zingari, degli handicappati e anche dei cristiani aveva acceso negli animi una domanda di fuoco: «Ma Dio dov’è?».

Le ideologie avevano scavato fossati. La gran parte dei credenti, giustamente preoccupata di ricostruire le città e dar lavoro alle fabbriche, si era adagiata su una fede tradizionale alimentata dai riti e dalla frequenza ai sacramenti e, quindi, ancorata su una secolare e splendida pratica religiosa, ma dal respiro corto. La fede così divenne anemica quindi bisognosa di riconquistare valori grandi capaci di offrire una ragione per vivere.

Nell’intuizione di papa Giovanni XXIII nell’indire un Concilio ecumenico e soprattutto in Paolo VI nel volerlo continuare pur essendo appena iniziato, c’era il desiderio di tessere il corso della storia moderna con i colori della Redenzione portata da Cristo Gesù. Paolo VI era consapevole che sono le cose ultime della vita che scandiscono il ritmo di marcia dell’esistenza umana. Questo anelito non solo anima tutti i documenti conciliari, ma Paolo VI l’ha fatto riecheggiare anche all’Assemblea delle Nazioni Unite. Dopo aver indicato all’ONU il compito della costruzione della pace e della giustizia tra i popoli, papa Montini ha detto: «Quest’edificio che state costruendo si regge non solo su basi materiali e terrestri, sarebbe un edificio costruito sulla sabbia, ma si regge soprattutto sulle nostre coscienze. [...] Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario un appello alla coscienza morale dell’uomo! […] L’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principi spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e animarlo».

In questo mese di novembre non vogliamo rivestire con i colori dell’autunno la luce dell’aurora, ma dare al tramonto della vita la luce luminosa dell’alba che esce dal grembo del buio per accendere e rafforzare le speranze della giornata.

Giovanni Battista Montini ha vissuto gran parte della sua esistenza a servizio della Chiesa nel confine delle mura vaticane. Concretamente, secondo un’espressione di papa Francesco, ha assorbito «l’odore delle pecore», caratteristica di un buon pastore d’anime, durante il suo ministero episcopale a Milano: la diocesi più grande del mondo sia per il numero di fedeli, di parrocchie e, ovviamente, per la presenza di sacerdoti.

La sua esistenza è stata una costante tensione nello scoprire e nel tentare di vivere la volontà di Dio.

Il suo sguardo penetrante sapeva cogliere nei frammenti del quotidiano i messaggi di eternità e li comunicava come scialuppa di speranza alle persone care.

Erano i primi passi della «carriera» ecclesiastica quando morì Benedetto XV. In una lettera ai suoi familiari narra l’evento e la visita dei fedeli romani al papa defunto. In questa lettera il giovane don Montini esprime una singolare riflessione sulla morte che può aprire uno spiraglio di luce sulla nostra fede nell’immortalità.

Dopo la descrizione della lunga fila dei fedeli, del servizio d’ordine, ecco finalmente la fila si muove: ecco il Papa. «… e la mano, stanca di benedire, riposa sul petto augusto e inerte. Si ha la percezione inconsapevole di essere di fronte ad una morte simbolica. Perché il più grande enigma umano, la morte, viene a coprire finalmente anche Pietro che si dice vincitore della morte e padrone, testimone dell’aldilà. Tutta questa folla che passa e contempla e non si sazia, pare che voglia spiare, attraverso le palpebre chiuse, un qualche raggio nascosto dell’alba eterna; guarda e pensa lontano; e neppure prega, perché crede che la preghiera sia già consumata in un trionfo; passa e non parla più, quasi per non svegliare il Dormiente. Pietro, perché dormi? […] Già, qui sotto la cupola michelangiolesca anche San Pietro è morto ed è sepolto. Andiamo a pregare (all’altare della Confessione N.d.R.). Finalmente con la fronte appoggiata sul marmo gelato, si prega, viene sulle labbra il Credo; il Credo, sulla tomba dell’apostolo che piantò il vessillo della Croce, il polo di attrazione dell’umanità, dei secoli della storia, qui dove (Pietro) morendo ha vissuto la verità della fede».

Il giovane don Battista, com’era chiamato in famiglia, prosegue la sua lettera ponendo a confronto il dramma di una morte senza speranza, come avvenne nella preistoria, nelle tribù nomadi nei deserti, nelle sabbie tropicali, nelle foreste, gente che «non sa di vivere, se non quando muore». Nella basilica di San Pietro, davanti al feretro di un papa, don Battista descrive la testimonianza perenne di «Pietro che muore e risuscita, muore sapendo di non morire, ma di essere partorito a una vita immensamente più intensa come più grande è la paternità di Dio».

Montini, giovane «minutante» alla Segreteria di Stato, saluta Benedetto XV con una preghiera: «Ecco, o Padre, noi ti lasciamo non come orfani, perché la tua paternità veniva da Dio e tu, tante volte, ce l’hai avvicinata questa divina familiarità con la tua benedizione; Tu, come Cristo, hai dato la vita per il tuo gregge, hai pregato che fossimo consumati nell’unità dell’adorazione celeste».

 

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