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Giovedì, 05 Settembre 2013 13:37

L'accidia, il male paralizzante del nostro tempo

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di Giovanni Cucci

«Spesso il male di vivere ho incontrato». Queste celebri parole di E. Montale mostrano la perenne attualità dell’accidia: un velo opaco che rende ogni cosa insopportabile e fa sentire spenti, vuoti, senza energie; oppure, all’opposto, risulta impossibile fermarsi, restare in silenzio senza qualcosa da compiere e a cui pensare. «Accidia» significa letteralmente la debolezza dell’anima, che si manifesta come assenza di attrazione, di desiderio di vivere, perché considerata priva di senso.

Considerata sotto questo punto di vista, l’accidia è molto affine alla depressione psicologica, il «male oscuro», molto diffuso nelle odierne società occidentali. L’accidia non coincide tuttavia con la depressione, perché può essere vissuta con umore euforico, attivo e operoso, unito tuttavia alla totale paralisi della vita spirituale.

La Bibbia ha delle pennellate geniali per descrivere il comportamento flemmatico e inerte dell’accidioso: «La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto» (Pr 26,14). Ma questo è soltanto un aspetto dell’accidia, ci sono altre pagine in cui la Bibbia si mostra straordinariamente vicina alla descrizione delle crisi angoscianti della letteratura di ogni tempo: «Presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento» (Qo 2,17). Una tristezza straziante e diffusa nei confronti della pesantezza del vivere viene espressa in modo lucido e folgorante dal libro di Giobbe o dal profeta Geremia.

S. Tommaso definisce l’accidia «un disgusto o tristezza per il bene spirituale e interiore, da togliere la volontà di agire». Questo vizio diventa in tal modo una catena che rallenta il cammino e intristisce lo spirito.

Tristezza e accidia non sono tuttavia identiche. La tristezza è un campanello d’allarme di fronte a qualcosa di sgradevole, che va ascoltato e interpretato. Esiste infatti anche una tristezza buona, che scuote dal male e invita a compiere il bene. È il caso dell’Innominato ne «I promessi sposi».

Esiste indubbiamente anche una componente somatica nella tristezza, era il temperamento che gli antichi chiamavano melanconico. L’accidia ha però soprattutto motivazioni interiori, essa è una tipica «malattia dello spirito», un vizio dell’anima. L’immoralità dell’accidia è la conseguenza di questo triste ripiegamento su di sé, che porta a restare indifferenti al bene.

Il male del nostro tempo

L’accidia sembra essere la conseguenza più evidente di una cultura e mentalità narcisista, che fa di se stessi il centro di tutto.

La presenza diffusa dell’accidia ricorda invece che il sogno di una civiltà felice, realizzato dalla tecnologia e dall’abbondanza dei beni, è falso. Gli studi condotti in sede psicologica confermano quanto depressione e tristezza si presentino come fenomeni preoccupantemente in crescita nelle nostre società, colpendo in particolare la fascia di età giovanile (18-35 anni) che dovrebbe essere la più aperta alla vita, portando ad un aumento dei suicidi e alla massiccia diffusione di droghe, alcool e farmaci per sopperire alla tristezza di vivere. L’accidia, male dello spirito, si mostra refrattaria a soluzioni meramente tecniche.

Contrastare l’accidia

L’insegnamento costante dei padri spirituali è che di fronte all’accidia bisogna reagire facendo esattamente l’opposto di quanto suggerisce, anzitutto in sede di valutazione: sentirsi incapaci non significa essere incapaci. Questo giudizio di verità è decisivo per il valore della persona.

Un altro aiuto importante è di esplicitare la relazione tra accidia e morte: il «pungiglione della morte» (1 Cor 15,55-56) è uno dei veleni più potenti dell’accidia, la sensazione di avere sprecato la propria vita. Attuare invece un comportamento orientato al bene favorisce e incrementa lo spirito del ringraziamento per ciò che si è ricevuto, che è agli antipodi dell’accidia: «Chi è preda dell’acedia vive nella a-charistia, nell’incapacità a stupirsi della bellezza, dell’amore e quindi, nell’incapacità a rendere grazie» (Bianchi).

Schimmel, uno psicologo attento alla dimensione spirituale della vita, legge la tristezza nei termini di un appello e di un compito affidato: «È raro che un adulto associ la propria infelicità a un desiderio frustrato di fare il bene. Cogliere opportunità per fare il bene anche di fronte alla malattia è la risposta dello zelo all’accidia».

«Un desiderio frustrato di fare il bene»: questo è il punto decisivo per scuotere la persona tendenzialmente ripiegata su se stessa e sul proprio soffrire. Considerare la brevità della propria vita insieme alle possibilità di bene alla propria portata, aiuta a riconoscere una direzione per cui spendersi, limitata ma reale. Come notava A. Schweitzer: «Quello che tu puoi fare è solo una goccia nell’oceano, ma è ciò che dà significato alla tua vita».

 

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