di Mario Sgarbossa
Dalle due genealogie elencate da Matteo e Luca sulla discendenza dal re Davide è escluso il nome di Gioacchino padre di Maria. Non si dava la genealogia del ramo femminile. Ciò non significa che non si debba tener conto della tradizione che considera anche Maria tra i discendenti di re Davide, anche se Luca e Matteo non lo dicono esplicitamente.
è forse questo particolare che ha avvicinato Giuseppe alla fanciulla di nome Maria. Per questa lontana parentela Giuseppe, all’uscita dalla sinagoga, si fermava a salutare Maria e i genitori di lei, Gioacchino e Anna, che ogni sabato accompagnavano la figlia alla Casa della preghiera. Qui Maria e la madre prendevano posto nella tribuna riservata alle donne, mentre il padre sedeva quasi sempre in prima fila nella grande sala, per ascoltare la lettura della Torah, preceduta dalla professione di fede all’unico Dio: Shemà, Israel, ascolta, Israele.
Maria ascoltava con accresciuta gioia la lettura della benedizione quando dal leggìo le giungeva la voce ormai nota e attesa di Giuseppe. In famiglia Gioacchino parlava spesso di lui. Per tradizione spettava al padre scegliere e presentare il fidanzato alla figlia. Sarà lui? sospirava in cuor suo la fanciulla in fiore.
Ma su questo felice incontro l’indimenticabile Tonino Bello, vescovo, si concede una godibile licenza poetica:
“Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle conversava in disparte sotto l’arco della sinagoga? O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano mentre, abbassando gli occhi splendidi per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice? Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo per la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi, e poi tu la notte hai intriso il cuscino con lacrime di felicità?” (da Sentinelle del mattino, ed. La Meridiana).
L’incontro, possiamo ben crederlo, avvenne un sabato nella sinagoga, luogo più indicato per i due giovani “timorati di Dio” e, riguardo a entrambi, queste parole di circostanza dicono la pura verità. La sinagoga di Nazareth era ben poca cosa rispetto alla maestà del tempio di Gerusaleme: un salone rettangolare con qualche simbolo biblico alle pareti, una stella di David, un candelabro a sette braccia, l’arca santa (Aron ha qodesh) che custodiva i rotoli di pergamena della Legge, la Torah, avvolti in panno pregiato con ricami; e in questa lunga pagina, arrotolata alle due estremità su due bastoncini, uno scriba aveva ricopiato il testo del Pentateuco. Su questo salone disadorno Giacobbe e Gioacchino avevano introdotto, ancora in giovanissima età, Giuseppe e Maria, in ossequio alla tradizione che consigliava di condurre alla sinagoga i pargoli appena in grado di ripetere la parola amen, più facile dell’alleluja.