Per la scuola media inferiore dovetti viaggiare tre anni un po’ a piedi e un po’ in pulman per raggiungere il paese più grande dove c’era la scuola. Per la scuola superiore fu necessario andare in città e rimanervi dal lunedì al sabato; così anche per l’università.
La città non l’ho mai sentita a mia dimensione. Essendo stata configurata dall’ambiente nativo e della mia fanciullezza – le verdi colline, gli spazi immensi del cielo azzurro di giorno e brulicante di stelle nella notte – non seppi mai abituarmi agli alti palazzi, alle vie affollate, al traffico e ai rumori dell’ambiente cittadino. Spontaneamente, perciò, cercavo rifugio nel silenzio delle chiese; lì potevo sentirmi a casa. Ecco perché quando i miei compagni e le mie compagne di scuola cercavano di coinvolgermi in qualche loro iniziativa di svago, pur essendo socievole e aperta all’amicizia, preferivo non parteciparvi e trascorrere il tempo libero a leggere e a pregare.
Avendo inoltre già in cuore il desiderio della vita consacrata, mi sottraevo alle occasioni di essere cercata dai giovani, dicendomi già impegnata. E tutti si chiedevano, stupiti, chi fosse mai il misterioso “principe azzurro” preferito! Un giorno uno di questi, un po’ stizzito, mi scrisse a caratteri cubitali: Cave fumum, pete arrostum! Era chiara l’allusione, ma egli non sapeva che il mio “Principe” era tutt’altro che fumo!
Poiché amavo leggere e scrivere anche in poesia, il silenzio e la solitudine mi erano congeniali. Furono le mie insegnanti di lettere e filosofia a scoprire e a dare importanza a questo mio dono. Esse mi proposero anche la partecipazione a due concorsi letterari: uno di poesia e uno di narrativa per ragazzi. Il primo libretto – Lacrime al sole – raccoglieva poesie dell’adolescenza e ricevette un encomio “per la musicalità del verso e la ricchezza del sentimento”. Il secondo libretto – Abbiamo ucciso una rondine – fu segnalato tra i primi per la freschezza del racconto tutto pervaso del senso religioso della vita. Penso che tali riconoscimenti fossero dati più che altro per incoraggiamento, considerando la mia giovane età. Quella fu comunque l’occasione del mio primo impatto con il mondo della cultura e dell’arte, dal quale però subito mi ritrassi, avendone riscontrati aspetti di ambiguità, anzitutto il rischio di fare letteratura per affermarmi tra gli uomini più che per essere al servizio di Dio, in tutta umiltà.
Per non agravare sulla mia famiglia, negli ultimi anni di studi insegnavo anche un po’ in una scuola media privata e – avendo conseguito, prima di iscrivermi all’università, il diploma di assistente sociale – mi dedicavo pure ad un centro di tutela minorile.
È ovvio che a motivo della particolare situazione in cui mi trovavo, non potevo sentirmi soltanto una studente, ma già responsabilizzata in servizi educativi e assistenziali.
Eppure, pensandoci ora, mi stupisco di come abbia potuto – ingenua e inesperta com’ero – accostare il mondo della miseria morale, quasi sempre associata a quella materiale, senza subirne nocive conseguenze.
Non erano i ragazzi “deviati” che assistevo a preoccuparmi, ma il malcostume degli adulti che solitamente essi avevano alle spalle. Un giorno un ragazzo rilasciato dal Riformatorio del San Vittore di Milano per la sua buona condotta, piangendo mi supplicava di farlo rientrare in carcere, perché fuori non sapeva dove andare… Sua madre era una prostituta e suo padre un alcolizzato.
A volte c’era chi approfittava della mia ingenua fiducia; perciò, mentre mi privavo io stessa del necessario per procurare il cibo a chi si diceva affamato, venivo poi a sapere che aveva speso quei soldi per soddisfare i suoi vizi. Tutta quella gente mi faceva comunque un’immensa compassione e poiché mi rendevo conto che aveva soprattutto bisogno di salvezza, sempre di più mi sentivo spinta non tanto a fare materialmente qualcosa per loro, quanto a dare me stessa effondendomi in preghiera e unendomi al sacrificio redentore di Gesù che solo può rinnovare nell’intimo le persone.
Desiderosa di non ritardare più la decisione per la vita claustrale, affrettai la discussione della tesi di laurea: La poetica e in particolare il simbolo della luce nel De consolatione filosofiæ di Severino Boezio. Questo filosofo cristiano (V-VI sec.), vittima del potere politico, dal buio del carcere dove ha subìto la morte ha lasciato un messaggio di sublime sapienza agli uomini di tutti i tempi. Mi era caro visitare la sua urna nella cripta di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, e leggere i commoventi versi a lui dedicati da Dante nella Divina Commedia: «Lo corpo ond’ella [anima] fu cacciata giace/ giuso in Cieldauro; ed essa da martirio/ e da essilio venne a questa pace» (Par X,127-29). Sentivo aleggiare attorno a me un fervore di fede e di carità che infondeva coraggio per scelte sempre più generose.
Ricordo che, in occasione della laurea, nell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano allora si faceva il giuramento antimodernista e la professione di fede. Provai una profonda emozione nel pronunziare la formula con la mano sul Vangelo. Era cosa ben diversa dal giuramento fascista che si faceva a scuola durante la seconda guerra mondiale! Ora si trattava di professare assoluta fedeltà al Signore Gesù Cristo per diffondere una cultura autenticamente cristiana, soprattutto incarnandola nella vita.
E mi era ormai chiaro che per me incarnare la cultura del Vangelo nella vita significava lasciare tutto, anche me stessa, per consegnarmi al Signore ed essere, a imitazione della Vergine Maria, unicamente al suo servizio per i suoi misteriosi e adorabili disegni.