di Carlo Lapucci
Le tracce più antiche lasciate dagli esseri umani sono le sepolture; prima ancora d'imparare a levigare pietre e a fare capanne, i primitivi inumavano i loro morti con i segni di un culto elementare che si pensa essere stato la prima forma di rapporto dei viventi con la trascendenza. L'amore per i defunti, diffuso in tutti i popoli come Egizi, Persiani, Indiani, Cinesi, Romani, Fenici, si è mantenuto nel tempo, restando vivo fino a noi in forme diverse: quella religiosa e attraverso questa nella scultura, nella musica, nella letteratura. Si dice che un elemento fondamentale per misurare il grado di civiltà d'una popolazione sia il suo modo d'onorare i morti.
Nel nostro tempo assistiamo a un affievolirsi di questo culto e il fenomeno non si può chiamare neppure imbarbarimento perché barbari e primitivi onoravano sommamente i morti rispettandone e coltivandone la memoria. Allora è civiltà quella che ci sta portando verso questa trascuratezza nei confronti di chi ci ha preceduto?
I segni della morte tendono a scomparire dalla nostra vita collettiva e sono evitati talvolta con orrore. La rappresentazione della morte è minimizzata nei funerali e nei segni esteriori del lutto. Riti e immagini che fino a poco tempo fa ci rappresentavano la fine come esito e come parte inseparabile della vita: la realtà alla presenza della quale occorreva vivere. Oggi si tende a considerare la morte come fatto separato dalla vita: non si vogliono vedere sopra le tombe neppure i fiori morti, sostituiti da abili imitazioni di plastica.
Un tempo nelle vetrine delle credenze delle case stavano infilate le foto degli scomparsi per tenerli sempre vivi nel ricordo; i segni del lutto sugli abiti, gli uffizi, le visite frequenti ai cimiteri stanno scomparendo. In trenta anni oggi una tomba scompare, le epigrafi sono pressoché abolite: su un piano di pietra, un nome, due date, al più una croce o un altro simbolo religioso come Α e Ω. Raramente compare una frase della Sacra Scrittura.
Eppure una quantità enorme di notizie è stata tramandata attraverso le lapidi fin dai tempi remoti, molte figure si conoscono solo per gli epitaffi e questi hanno dato un contributo alla decifrazione delle lingue. Molte composizioni dell'Antologia Palatina, la grande raccolta di poesia bizantina, sono forme poetizzate di epitaffi e anche i discorsi di coloro che Dante incontra nella Divina Commedia, non sono che grandi autoepitaffi.
Fino dai primi secoli vi fu nella Chiesa l'uso di dedicare un giorno ai morti. Le varie chiese seguivano date e riti diversi e il giorno veniva fatto seguire a una delle grandi feste liturgiche. L'unificazione di queste diverse date si deve a San Odilone, abate di Cluny dal 994 al 1048, che emanò il decreto per celebrare la memoria dei defunti il 2 novembre. L'uso si estese così nel cristianesimo occidentale e la festa trovò col tempo la sua formalizzazione.
Dopo la festa dei Santi, che godono già della beatitudine eterna, il giorno seguente ogni fedele si unisce nell'universale Comunione dei Santi a tutti coloro che sono ancora in cammino verso il Regno dei Cieli, celebrando in Cristo l'universale festa della Salvezza.
San Giuseppe è il patrono della buona morte e dei moribondi. Uno scritto apocrifo Il transito di Giuseppe, risalente al V secolo, narra come Cristo stesso, che assisté Giuseppe nell’ora estrema, esprime la propria sofferenza nel vedere l'uomo di fronte alla fine, spiega la necessità del dolore, che egli stesso ha accettato, e parla della speranza e della fede che devono avere coloro che credono e sperano in Lui. n