O beata Trinità: a Te la lode, la gloria, il rendimento di grazie!
La festa della SS. Trinità, che si celebra nella prima domenica dopo Pentecoste, non commemora un evento storico del disegno della salvezza, ma contempla una verità, la fondamentale verità della nostra fede, nella quale si ricapitola il mistero cristiano e da cui prende luce tutta la nostra vita di battezzati.
In realtà, dall’Avvento alla Pentecoste, la Liturgia non ha fatto altro che metterci a contatto con le tre Persone divine. In ogni tempo dell’anno, infatti, tutta la lode e la preghiera liturgica sono rivolte a Dio Uno e Trino, al Padre per il Figlio nello Spirito Santo. E, in modo eminente, ogni celebrazione eucaristica è non solo rinnovazione del mistero pasquale, ma atto di culto alla SS. Trinità.
Potrebbe perciò sembrare persino superfluo dedicare ad essa una festa particolare. Ma, come dice Pascal, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». E ciò che nasce dal bisogno spirituale della comunità dei credenti ha sempre profonde ragioni di esistere, è sempre frutto di quelle intuizioni che colgono aspetti essenziali della vita nello spirito.
Il bisogno di onorare solennemente la SS. Trinità, sentito già nella Chiesa dei primi secoli, è, in sostanza, il bisogno di dire a Dio il nostro grazie con maggiore risalto e intensità, come per una festa di onomastico, presentandosi vestiti a festa, con un bel mazzo di rose. La Chiesa è, infatti, sempre una giovane Sposa che sa arrivare a questi slanci di amore riconoscente verso lo Sposo. Essa cerca in se stessa una parola, un gesto che vada simultaneamente a tutte e Tre le Persone divine, che le raggiunga nel più intimo della loro essenza e della loro beatitudine: nella loro unità; e poiché in se stessa ha la Santissima Trinità (cf. Gv 14,23), ciò che vi trova è proprio l’espressione dell’amore estatico che le tre Persone divine si scambiano. Essa perciò esclama: O beata Trinità!
Stupore, gioia, ammirazione: un grazie che s’immerge nel silenzio adorante verso la Trinità cantata da un autore medievale come «amica del silenzio».
Non c’è forse liturgia più contemplativa di quella che la Chiesa ha composto per celebrare la festa della SS. Trinità. Tutti i testi della Messa, le antifone e gli inni della Liturgia delle ore, sono alla fine una sola invocazione ripetuta in tutti i toni e arricchita dell’intera gamma dei sentimenti di un’anima contemplativa. In essi c’è il tentativo di formulare un discorso intorno al mistero celebrato, ma subito restano come sopraffatti dalla sua immensità e ammutoliscono davanti all’ineffabile. Che cosa, infatti, conosciamo della SS. Trinità, se non qualche cosa di quel che ha fatto per noi?
Il battesimo ci ha resi templi consacrati, abitati dalla SS. Trinità: ci ha restituito, ancora più luminosa, l’interiore somiglianza con essa, quella somiglianza nella quale eravamo stati creati (Gen 1,26).
A Dio, che è Trino e Uno, viene quindi ad essere configurata tutta la nostra vita: siamo anche noi un rapporto d’amore. Portiamo in noi stessi il mistero della SS. Trinità, lo viviamo pur senza poterlo pienamente comprendere ed esprimere. Posta all’inizio della ripresa del cammino ordinario, la celebrazione solenne della SS. Trinità ci dispone, dunque, ad accogliere ogni giorno dell’anno come un mistero e un dono d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito, e a viverlo nel sì e nel grazie dell’amore filiale e sponsale.
Dono e adorazione
Dopo averci fatto intuire con la celebrazione solenne della SS. Trinità qual è il mistero nascosto nel cuore di ogni uomo e qual è il fine del nostro terreno pellegrinaggio, nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore la Chiesa ci raduna per dirci da dove attingere la forza per il santo viaggio della fede verso la visione. Infatti la Chiesa «vive dell’Eucaristia. Da quando, con la Pentecoste, essa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza» (Ecclesia de Eucharistia, n. 1).
L’Eucaristia è già stata solennemente celebrata il Giovedì Santo, ma in quel contesto liturgico tutta l’attenzione era posta su Gesù, sul suo “amore fino alla fine”, sul dono totale di sé che lo spinse non solo ad offrire la vita, ma anche a diventare il nostro pane quotidiano che, proprio perché alimento molto semplice e comune, corre il rischio di essere da noi facilmente non apprezzato e sprecato… Nella celebrazione odierna, invece, la Chiesa innalza l’ostia consacrata come suo preziosissimo tesoro, circondandola di ogni onore, e nello stesso tempo festeggia anche se stessa quale Corpo mistico di Cristo, ossia quale frutto dell’Eucaristia. L’ostia santa è da contemplare e da mangiare con fede, perché, comunicandoci la sua energia vitale, ci trasformi in Cristo. Il Vangelo secondo Matteo si apre con la rivelazione del dolce nome di Gesù annunziato in sogno dall’Angelo a Giuseppe: egli sarà l’Emmanuele, il «Dio-con-noi», preannunziato dal profeta Isaia, atteso e invocato con intenso desiderio da generazioni e generazioni di «poveri del Signore», veri cercatori di Dio.
Le ultime parole che – sempre nel Vangelo secondo Matteo – Gesù rivolge ai «suoi» prima dell’Ascensione sono una solenne consegna del Nome, quale compagnia per il cammino nella storia: «Andate… Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». «Io sono con voi»: Io, l’Emmanuele, sono con voi nel pane dell’Eucaristia che vi dono come sostegno, medicina e pane del perdono…; con voi nei poveri, con voi in coloro che hanno fame e sete, con voi nella persona degli stranieri e dei forestieri; con voi nei carcerati e nei malati, con voi in tutti coloro che si sentono affaticati e oppressi dalle molteplici prove della vita. I poveri sono diventati un vivente tabernacolo: in essi onoriamo il Signore e lo riceviamo.
È questa la presenza «invisibile ma reale» del Signore Gesù tra di noi fino alla fine del mondo. Viviamo il tempo della fede, il tempo dello Spirito che ci rende eucaristici. Occorre uno sguardo puro per poter riconoscere Gesù nascosto sotto così umili sembianze; occorre mantenere acceso nel cuore il fuoco del suo amore per camminare con lui e partecipare – nel silenzioso sacrificio e nell’umile servizio – al suo mistero di passione e morte, ed essere resi partecipi della sua risurrezione. Questo fuoco si tiene acceso con l’adorazione. Consapevole di avere nell’Eucaristia il suo inestimabile tesoro, la Chiesa non può e non potrà mai rinunziare a circondarla del culto che le è dovuto.
Proprio perché gli uomini in precipitosa corsa dietro molte altre cose che sono fuggevoli possano essere fermati e posti davanti all’essenziale, davanti a Colui che è il Signore del tempo e della storia, occorre continuamente ricordare e proclamare che a Lui spetta l’omaggio del tempo, in totale gratuità, come pure l’omaggio di tutto ciò che di più bello esiste nel creato. Del resto, proprio nell’adorazione eucaristica l’uomo eleva anche se stesso alla più grande dignità.
Amore fino alla fine
La festa del Sacro Cuore torna a farci celebrare solennemente l’amore di Dio; essa ci rivela che Egli non ha tralasciato proprio nulla per rendersi vicino a noi, fino a voler divenire una presenza visibile e sensibile attraverso il cuore di Cristo.
Dio ha voluto amarci anche con cuore d’uomo, per formarci all’amore divino e rendere anche noi capaci di un amore che non sia più dentro gli angusti limiti del tempo e condizionato dalla nostra natura ferita dal peccato, ma sia un amore libero, forte e fedele perché alimentato alla sorgente dell’Eterno Amore. L’uomo è chiamato ad entrare in comunione di vita con Dio, quindi ad assumere le disposizioni proprie del suo Cuore. Questo significa uscire dalla misura ristretta dell’amore umano per entrare negli spazi infiniti dell’amore divino; ed entrare nel cuore di Dio significa nutrire nel nostro cuore sentimenti di magnanimità e di bontà verso tutti. Nell’eccesso del suo amore per noi, Egli è giunto a donarci il suo unico Figlio, il Figlio del suo amore che noi abbiamo crocifisso e trafitto nel cuore. Ma proprio da quel Cuore è scaturita per noi la salvezza. Consapevoli di quanto Egli ci ha amato, come potremmo non desiderare di riamarlo?
Come possiamo allora rendere vero e concreto il nostro amore? Anzitutto conformandoci allo stesso sacratissimo Cuore di Gesù. Egli si è dichiarato umile, mite, disarmato, ma proprio dalla sua umiltà e mitezza sgorga la vera forza; la forza di amare gratuitamente. Da Gesù si impara ad amare il Padre e tutti i fratelli con purezza di cuore.
Quando invece nel cuore non c’è umiltà, non c’è neppure la capacità di riconoscersi amati da Dio. Nel cuore indurito si innesta il meccanismo della prepotenza che genera odio e violenza. Un cuore indurito non si apre ad accogliere l’altro, perché non è consapevole della propria povertà. Occorre perciò pregare molto, perché i nostri cuori induriti possano spezzarsi, riaprirsi alla grazia e conoscere la gioia della vita di comunione: comunione in famiglia, nelle comunità, con i compagni di lavoro, in tutti gli ambiti della vita associata. Perché questo avvenga è soprattutto necessario tenere fisso lo sguardo su Gesù e lasciarsi penetrare dal suo sguardo. Il Cuore di Cristo è un Cuore buono che vuole il bene e solo il bene per tutti; in questo bene si trova ristoro, perché chi ha il cuore buono e disarmato è nella pace e comunica pace.
Chi è umile e ama non si affanna per ciò che non vale, non ha ambizioni, gode anche del poco e sempre benedice il Signore. Chi è unito a Gesù, conformato a Lui, prova dolcezza anche quando attraversa momenti di difficoltà; anche quando deve bere il calice amaro; sente leggero il peso della croce, perché è peso di amore per il bene di tutti.
La prova più grande dell’amore di Gesù e del suo Cuore compassionevole ci viene data proprio nell’ora della sua crocifissione, nel momento in cui ci genera alla vita nuova attraverso il sacrificio di se stesso. L’eterno Padre, sacrificando il Figlio, in certo modo spezza il suo cuore e ce lo dà, ma anch’egli soffre, perché il Figlio è il cuore del Padre, è tutto il suo amore, la sua compiacenza!
Tutta l’esistenza di Gesù, fino al culmine della morte in croce, ci rivela quindi anche il cuore del Padre; perciò la devozione al Sacro Cuore è segno di pietà verso Colui che ci ama. In questo amore c’è anche il cuore della madre, di Maria, nella quale si esprime la tenerezza del Padre e l’amore obbediente del Figlio. Ella, che per potenza di Spirito Santo ha generato il Verbo, sotto la croce insieme con Lui genera alla vita anche noi. E, cosa mirabile, ora anche la Chiesa, partecipe di questo amore, diventa madre nello Spirito. Lo diventa nella sua totalità, quale corpo mistico di Cristo, e in ciascuno di noi, se viviamo uniti ad essa quali membra vive dell’unico mistico corpo, alimentati all’unica inesauribile sorgente della fede e della carità.