Figlio della Chiesa e figlio del Papa senza incrinature, seppe gioire delle glorie della Madre e seppe sorridere dei difetti dei suoi servitori, come quando fatto letteralmente fuori dall’organizzazione dei soccorsi per il Terremoto di Avezzano del 1915, ne uscì disorientato per certe manovre ecclesiastiche; un testo inedito che riporta le sue confidenze di quei mesi è molto chiaro: “Io finora mi son sempre inchinato tremebondo dinanzi a chi ha una mitra. Troppo tardi mi sono accorto che qualche volta sbagliano. Non c’è da meravigliarsi né da scandalizzarsi. Ubi sunt homines, ibi sunt miseriae… Bisogna aspettarsi del male anche per il bene che si fa…Per il terremoto nessuna istituzione ha fatto la metà di quanto è stato fatto dalla nostra: ad Avezzano le Zelatrici del sacro Cuore venute poi, ingelosite del bene fatto dalle nostre che esse non erano capaci di fare, ottennero dal Vescovo che le nostre partissero dopo che per le prime avevano impiantato ogni cosa con grande sacrificio”.
Ma don Guanella la lezione delle lezioni l’aveva interiorizzata, il punto della fede su cui tutto sta o tutto cade è la certezza del Padre e del suo amore che mai permettono la caduta nel vuoto delle vicende umane: tutto serve, tutto porta, tutto è grazia. Tutto è Provvidenza, diceva lui in forma quasi litanica.
Aveva appreso a sue spese che soffrire per la Chiesa non è ancora nulla, fino a quando non si soffre per mano della Chiesa, che è la prova del fuoco, superata la quale si sa tutto. Quasi un’impronta digitale: se fa star male…allora è la Chiesa.
Arrivare a Roma per lui non fu una strategia, una mossa accorta, un impulso alle opere: fu l’occasione per stare ‘vicini’ al Papa, al cuore del cuore del Regno di Dio, che è la Chiesa. Nella sua ecclesiologia il Papa è il Papa, ed è lui il Padre; don Guanella non ignora i Vescovi, ma li vede in funzione subordinata e sussidiaria, sono i rappresentanti del Papa, i suoi portavoce presso quei fedeli che non possono comunicare direttamente con lui.
Arrivare a Roma nel 1903, ormai sessantenne con quasi trenta case già aperte, fu come saltare finalmente tutti gli intermediari e i portavoce e attaccare una presa diretta con la Chiesa, che per lui era una garanzia di appartenenza; avrebbe perso gli anni successivi, fino alla morte, in un continuo andirivieni da Roma, per far approvare le sue Congregazioni.
Non ci fu mai ambizione, né interesse personale: altri Fondatori, appena poterono installarsi a Roma, prestigiosamente, non ne uscirono più.
Don Guanella tornò nella sua Como che amava; lì l’aveva chiamato il Signore, lì era la sua prima creatura e lì voleva concludere la sua giornata, ma ogni volta che parlerà ai suoi figli e alle sue figlie delle vicende legate alla Città eterna, con una punta di soddisfazione dirà sempre: “Vi ho portati a Roma”. Come dire: ora chi vi separa più dalla Madre? Vi ho messi nel suo cuore, meritatelo e servitela da Figli.
Ad essi non lasciava solo il timbro di un’appartenenza, ma il suo modo di sentire la Chiesa; in lui mondo visibile e mondo invisibile si mescolavano incredibilmente, così che il Tempio richiamava il Corpo Mistico della Chiesa e questa rinviava al Corpo del suo Signore, sulla Croce e nell’Eucaristia, e tutto rimandava visibilmente ai poveri e ai sofferenti: dal tempio al Corpo ai corpi, in una unità imparata a catechismo, professata e insegnata per tutta una vita, vissuta sulla pelle. Nessuna fredda teoria, ma qualcosa di molto concreto, troppo forse.