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Giovedì, 12 Luglio 2012 09:56

Sosterrai lo straniero e l'ospite

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di Gabriele Cantaluppi

“Midrash” è la parola che nella lingua ebraica indica il modo di interpretare la Bibbia che, andando al di là del senso letterale, scruta il testo in profondità per renderlo attuale alla vita del lettore, traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che non appaiono a prima vista.  Con questo criterio vanno letti i primi capitoli dei Vangeli di Matteo e di Luca, detti “Vangeli dell’infanzia”, dove Gesù è presentato come colui che dà compimento alle profezie.
San Matteo cita molte volte l’antico testamento, per dimostrare che Cristo realizza quello che avevano promesso la legge di Mosé e i profeti, e lo fa anche nella narrazione della fuga della Santa Famiglia in Egitto nel secondo capitolo del suo vangelo.
Gesù già da bambino partecipa così alla vita del suo popolo: l’Egitto diventa per lui il rifugio, come lo fu per i patriarchi  Abramo, Giuseppe e Giacobbe, la terra dove il Cristo Bambino, appena nato, si rifugiò  e visse per sfuggire alla persecuzione del re Erode.

Tra le profezie al riguardo, vi è quella del profeta Isaia: “Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto. Crollano gli idoli dell’Egitto davanti a lui” (Is. 19,1).
Questo è proprio quello che accadeva, secondo la tradizione egiziana, ogni volta che il bambino Gesù entrava in una città: nei templi gli idoli crollavano ed andavano in frantumi, con grande spavento della gente.
Con l’arrivo di Gesù si è compiuta pure la profezia di Isaia che dice: “Ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo alla terra d’Egitto e una stele in onore del Signore presso la sua frontiera” (Is. 19, 10).
L’altare in mezzo al paese d’Egitto è l’antico altare della chiesa della Santa Vergine nel monastero di Al Molurraq, dove la Santa Famiglia dimorò per più di sei mesi, sempre secondo la tradizione, che riferisce anche che il piano dell’altare è la pietra su cui dormiva il bambino Gesù.  

Il viaggio

La Santa Vergine con in braccio il bambino Gesù accompagnata da San Giuseppe ha attraversato il deserto aspro e crudele, spostandosi da un luogo all’altro ed affrontando pericoli di bestie feroci che attentavano alla loro vita. Si trattava di un viaggio lungo, di varie centinaia di chilometri, che dovette durare dai dieci ai quattordici giorni.
Forse per andare in Egitto percorsero la strada più interna alla Palestina, meno utilizzata, che passava per Hebron e Bersabea, attraversava il deserto dell’Idumea e giungeva al Sinai: era anche quella più vicina a Betlemme. A Hebron e a Bersabea probabilmente Giuseppe e Maria comprarono delle provviste, prima di inoltrarsi nel deserto ed è probabile che, in questa parte del viaggio, si siano uniti a qualche piccola carovana, perché sarebbe stato impossibile intraprenderlo da soli: il caldo opprimente, la mancanza di acqua, il pericolo dei predoni, lo rendevano assolutamente sconsigliabile.
Come l’arte spesso rappresenta, seguendo anche la logica, Maria col Bambino tra le braccia, cavalcava un asino, tenuto per la cavezza da Giuseppe. Anche la fantasia degli scrittori apocrifi ha fatto fiorire numerose leggende: palme che allargano le loro chiome per far ombra ai fuggitivi, bestie feroci che diventano mansuete, briganti che diventano comprensivi, sorgenti d’acqua che sgorgano all’improvviso per alleviare la sete… La pietà popolare si fa eco in quadri e componimenti poetici, per mettere in evidenza l’assistenza della Provvidenza divina. La verità è che si trattò di una fuga in piena regola.
Non fa eccezione il dipinto di Federico Barocci rappresentato sul nostro calendario. Una scena di pace al tramonto, dopo una giornata di viaggio. L’immancabile asinello sembra volgere uno sguardo rassicurante sulla Famiglia accampata; Maria trova l’acqua per dissetare il Bambino, mentre Giuseppe porge un ramoscello di ciliegio a Gesù, che a sua volta offre alla Madre alcuni frutti, quasi ad indicare che la Provvidenza non fa mai mancare il suo aiuto anche nei disagi.
La tradizione non è unanime sul luogo dove risiedette la Santa Famiglia in Egitto, dato che nell’ampio delta del Nilo fiorivano molte comunità ebraiche. Si inserirono in una di esse come tanti emigranti, e là Giuseppe avrà trovato un lavoro che gli permise di mantenere degnamente, anche se poveramente, la famiglia. Secondo i calcoli più comuni stettero in Egitto almeno un anno, fino a quando di nuovo un angelo annunciò a Giuseppe che poteva ritornare in Palestina.
Il 1° agosto 1952, proprio sessant’anni fa, Pio XII pubblicava l’Esortazione Apostolica “Exsul Familia Nazarethana” [La famiglia di Nazareth esule]. In essa la Santa Famiglia in fuga in Egitto viene presentata come l’archetipo di ogni famiglia di rifugiati, modello e protettrice di ogni migrante, estraneo e rifugiato di qualsiasi tipo, che costretto dalla paura di persecuzione o dal bisogno, deve lasciare la sua terra natale, i suoi amati genitori e parenti, gli amici intimi e cercare sicurezza in una terra straniera.
Ovviamente, trattandosi di un documento datato, focalizza la situazione del tempo, insistendo soprattutto su alcuni aspetti legati alla civiltà agricola. Secondo i dati diffusi nel mese di aprile scorso dall’organismo dell’ONU che si occupa dei rifugiati, attualmente sono oltre cinquanta milioni i profughi nel mondo: la maggior parte rifugiati all’estero, anche se rimane rilevante il numero di quelli che hanno abbandonato le loro case restando all’interno del proprio Paese. Pio XII richiama a noi credenti che Dio onnipotente ha voluto che suo Figlio unigenito, facendosi uomo, ci precedesse nell’esempio con Maria sua Madre e con San Giuseppe, anche nel disagio e nel dolore dell’emigrazione.

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