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Giovedì, 06 Settembre 2012 12:08

Alla ricerca di un'identità da costruire in collaborazione

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di Angelo Sceppacerca

Oggi i giovani, normalmente, accordano fiducia alla Chiesa. Il che non vuol dire disponibilità alla Chiesa “ufficiale”. La Chiesa, come agenzia di servizi, ha un certo credito che le viene dato perché ritenuta una istituzione che può svolgere una attività promozionale nella difesa dei diritti civili, nella salvaguardia della pace, nell’eliminazione di ingiustizie e disuguaglianze. è anche in aumento l’importanza data alla religione nella vita dei giovani. Una recente inchiesta dice che si dichiarano “credenti in Dio” il 77% della popolazione giovanile e che la somma di quelli che orientano decisamente alla fede la propria vita e di quelli che vanno in chiesa in certe occasioni, raggiunge l’86%.

Le “buone relazioni”

Per chi opera nella pastorale giovanile, ma più in generale per tutti gli educatori, a cominciare dai genitori, intercettare i bisogni dei giovani significa poter dare il messaggio evangelico – perché non c’è bisogno di altro! – ma avendo l’attenzione a connotarlo esistenzialmente, a passarlo attraverso un’esperienza effettiva di buona relazione e a fare in modo che avvertano quella carità che è in grado di toccare i cuori. Le inchieste evidenziano come le tre cose più importanti per i giovani sono: la famiglia, l’amore e l’amicizia. Quelle relative all’impegno sociale, religioso e politico, occupano l’ultimo posto della graduatoria, non perché non siano in sé importanti, ma perché non passano attraverso la “confezione” di cui si è appena detto.
L’importanza della “relazione”, è particolarmente evidente nel “gruppo dei pari”. Molti dei ragazzi che stazionano sul “muretto”, in una piazza, vicino a un bar, non concludono niente e si ritrovano non in vista di un fine comune, di un impegno che chiede una mobilitazione di risorse.
Lo scopo è quello di rassicurare ogni membro del gruppo, sul fatto di esistere e di essere accettato e riconosciuto dagli altri membri del gruppo. Il “gruppo dei pari” è il luogo della relazione per la relazione.
Chi lavora con i giovani deve diventare un esperto in buone relazioni. Non si tratta di possedere particolari tecniche psicologiche o di fare apprendistati pedagogici. Il primo lavoro da fare, per lavorare con i giovani, è su se stessi. Il primo principio di una pastorale giovanile è: “per loro santifico me stesso”. Si offre una buona relazione se, innanzitutto, chi opera con i giovani è lui stesso in grado di incontrare l’altro, se testimonia col linguaggio non-verbale – al quale i giovani sono attentissimi – che dentro di sé ha una pienezza, trasmettendo i valori non per via concettuale, ma per via di “contagio”, di contiguità d’anima.

Le “azioni” della Chiesa

Tre suggerimenti. Su cose molto semplici, quasi “scontate”. Innanzitutto, una pastorale giovanile poggiata sul “principio d’identità”, ossia il riconoscimento che il giovane è… giovane. Il giovane riconosciuto come un soggetto non ancora approdato ad una condizione adulta, quindi uno che ha bisogno – anche se non l’ammette – di essere accompagnato, affiancato. Dall’altro versante, vuol dire che l’educatore è… l’educatore. Non si aiuta il giovane assumendo lo stesso livello, lo stesso linguaggio, lo stesso stile. Si è, invece, educatori dei giovani se si è adulti-vicini-ai-giovani, capaci di porre una “alterità”. Il rapporto con i loro “pari” i giovani già ce l’hanno, mancano del rapporto con i “dispari”. Applicato ai sacerdoti, il principio di identità suona:  “tu prete, sii prete”.
Primato della santità. Il primo requisito per chi lavora con i giovani è un impegno deciso verso la santità. Giovanni Paolo II così si esprime: “I santi e le sante sono sempre stati fonti e origine di rinnovamento nelle più difficili circostanze in tutta la storia della Chiesa. Oggi abbiamo un grandissimo bisogno di santi che vivendo intensamente il primato di Dio nella loro esistenza, ne rendano percepibile la presenza”. Queste parole del Papa non sono pie esortazioni, ma imperativi pastorali. Anche la psicoterapia conosce questo principio di fondo: nessuno accompagna un altro più in là di dove è giunto lui stesso. Nella pastorale giovanile, inoltre, bisogna essere ottimisti ossia partire dal presupposto che la pastorale giovanile è possibile se noi siamo innanzitutto quello che annunciamo e se lavoriamo con fiducia, anche puntando su distanze lunghe.
Puntare sull’alleato interno. In ogni persona che ci passa accanto c’è, nel fondo, un alleato. Siccome siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, in ognuno c’è una nostalgia di assoluto, una ricerca del vero, del buono e del bello. In ogni giovane c’è un “alleato” che “simpatizza” per ogni annuncio che sia nella carità, nella verità e teso a Dio. In altre parole: aiutare il giovane a scoprire se stesso. Il “malessere” del giovane è un segnale decisivo. Gesù è il medico, lo psicologo più grande perché conosce quello che c’è nel cuore dell’uomo. Se stiamo alla sua scuola, abbiamo la strada sicura per arrivare al cuore dell’uomo. Il contatto con la Parola è terapeutico.
Puntare in alto. Coi giovani occorre puntare in alto. Gli ultimi due Papi sono un formidabile esempio: fanno discorsi fortissimi ai giovani, proponendo mete vertiginose. Ai giovani non vanno dati messaggi mediocri, ma chiamati a cose grandi.

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