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Giovedì, 26 Maggio 2011 13:16

"Perché la famiglia è in crisi" Featured

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Intervista a Giuseppe De Rita

di Anna Villani

La splendida villa nel verde, a piazza di Novella a Roma, dove ha sede il “Centro Studi Investimenti Sociali” noto come Censis, dona quella pace che fa mantenere la calma a chi legge i continui dati sulla famiglia. Numeri che lasciano tanta amarezza se si pensa che il “sì” sull’altare è diventato il più eroico degl’impegni da mantenere. Proprio di famiglia, di ruoli famigliari e giovani voglio parlare con Giuseppe De Rita che non è solo l’autorevole Presidente del Censis, ma soprattutto un uomo di fede. Crede e fa credere chi lo ascolta, convince davvero che quello che dice lo pensa. Non lo incontri negli eventi politici romani, piuttosto a quelli religiosi. Cresciuto con i padri gesuiti, è padre di 8 figli e nonno di 14 nipoti. Dietro quella statura austera c’è una persona semplice che si interroga sulla vita, sui cambiamenti e si preoccupa di dare la propria testimonianza, sapendo che il momento non è dei migliori.

Presidente De Rita, la nostra rivista è intitolata a san Giuseppe, di cui Lei porta tra l’altro il nome. Che rapporto ha avuto nella sua vita ed ha col padre putativo di Gesù?
“Più che di devozione, direi intellettivo. Mi è stato assegnato alla nascita il nome Giuseppe per tradizione come si usava fare nelle famiglie, mio nonno si chiamava Giuseppe ed io ho ereditato il suo nome. Era scomparso tra l’altro già da vent’anni quando sono nato. Dunque non è un rapporto di fede, devozionale, nel senso del termine, ma intellettuale, il filo che mi lega a san Giuseppe. Ho un grande rispetto ed ammirazione per lui. L’uomo che vive sempre nell’ombra, la figura del mistero, nel silenzio, senza clamori  ha saputo dare un grande esempio. Non ha fatto tanti discorsi, ha agito, dicendo tutto. San Giuseppe accettò il mistero senza fiatare, visse nell’ombra affinché la luce andasse ad altri. Ho letto di recente la “Biografia” su papa Giovanni Paolo II, scritta da Andrea Ric­cardi. C’è un passaggio ad un certo punto del libro, nella lettera all’amica Wanda, quando Wojtyla spiegando che era stata in un lager, avendo avuto questa donna una vita sofferta ed una serie di controversie personali, dice di volerle bene sapendo che ella era lì, stava lì, ecco. Così anche di un amico, di un parente, dobbiamo dire: stava lì, e per questo stimarlo. Vi sono particolari momenti storici in cui per il solo fatto che una persona stava lì, è tutto. Così san Giuseppe, lui era lì, ci stava, nel suo protagonismo misterioso”.
Dal suo osservatorio privilegiato di indagine sociale, perché la famiglia è oggi in crisi? Ai divorzi e separazioni si sono aggiunti gli omicidi
“La famiglia soffre di tre crisi: identità del padre, della madre e del prete. Viviamo la crisi del padre, la crisi del ruolo paterno, che è fallito. Un tempo il padre era la figura che benediva un figlio, quando usciva di casa, quando si formava una famiglia lasciando il tetto dei genitori. Tutto questo non c’è più. Un tempo invece era il simbolo della benedizione per noi cattolici, dell’autorità anche se vogliamo. E poi la crisi della madre, nel suo ruolo chiave, ma non perché la donna ha scelto di fare anche carriera e di andare a lavorare, sfatiamo questo luogo comune sbagliato. No, piuttosto perché la madre ha rinunciato ad essere la portatrice di valori da trasmettere ai figli. Chi glieli deve impartire questi valori oggi? La madre è presa da altro oramai, rinunciando ad essere quel particolare ed ammirato “veicolo matrilineare”. In passato era lei che insegnava ai bambini il valore della preghiera, che proponeva la recita del rosario, che parlava di valori e di fede. Dove si vede oggi tutto questo? Sparito tutto, non c’è più, di qui la terribile crisi che avvolge il nucleo famiglia. Terribile crisi. Un tempo c’era e si poteva parlare di “cultura della mamma”. è finito tutto nel momento in cui si è rinunciato all’invito a pregare nelle famiglie. Io voglio ripartire questa crisi assegnando un 70% al padre, un 25% alla madre ed un 5% al prete. C’entra moltissimo l’educazione al matrimonio da parte di chi dovrebbe provvedere prima del matrimonio a preparare al matrimonio”.

Perché anche il sacerdote è coinvolto nella crisi della famiglia?
“Perché il prete oggi è angosciato, disperato, ostaggio pure lui dei suoi problemi, si deve confrontare con la ferita delle famiglie tutte sfasciate, in crisi, piene di problemi, “c’è la crisi della famiglia, come faccio a fare catechesi quando le famiglie sono del tutto distrutte e disperate?”, si domanda. E non riesce per questo a prendere su di sé nemmeno quella sostituibilità della figura paterna, perché un prete può farlo, ma oggi o si incontra il prete “sociale” o quello in “carriera”, l’idea di fare il padre non ce l’ha. Lei conosce qualche cattolico che al giorno d’oggi ancora si rivolge al prete chiamandolo “padre”? Ai miei tempi era la normalità. I padri gesuiti con cui stavo li chiamavamo tutti “padri”, i nostri confessori, i padri spirituali, oggi invece si è perso tutto questo. Si è perso di vedere la figura paterna nel prete. La crisi della famiglia non vede i preti partecipare attivamente nel contrastare la crisi, ma sono prigionieri essi stessi di questa crisi, non hanno le stesse colpe dei padri e delle madri, però un 5% lo metto pure per loro. Questo è il quadro della crisi della famiglia di oggi, in cui i preti subiscono questa crisi in quanto vivono a loro volta una crisi di identità. La gente oggi è piena di problemi, non sa come risolverli e va dallo psicanalista, impotente anche lui: “Mia moglie non mi soddisfa”. Una volta nelle borgate, nei quartieri di periferia romana, c’erano i sacerdoti che intervenivano nelle crisi familiari per riparare i matrimoni, per riunire le coppie sfasciate”.    

Chi dei tre uscirà per primo dalla crisi attuale: il padre, la madre o il sacerdote ?
“Domandiamocelo per avere una prospettiva futura di come andranno le cose; secondo me: il padre. C’è un libro molto bello di Massimo Recalcati, “Cosa resta del padre” (ed.Cortina), che aveva già scritto lo scorso anno un altro libro bello: “L’uomo senza inconscio”(idem ed.Cortina) in cui parlava di evaporazione del padre.
Oggi con questo libro nuovo, molto meno catastrofista del precedente, comincia a dire: guardate che il padre può recuperare un po’ di ruolo, non nell’insegnamento, non nella dottrina, non nella profezia, ma nella testimonianza. Nel senso che se è un buon testimone delle cose da fare, che si possono fare, che vanno fatte, allora in qualche misura c’è la possibilità che il padre riassuma una sua responsabilità. Mi ha molto colpito che nell’introduzione il libro di Recalcati abbia messo una pagina bianca e poi la fine di una poesia di Mario Luzi che dice “cominci ad essere qui nel cuore delle cose” e poi finisce “e sia così”. è molto bello perché Luzi fa capire, ed io mi ritrovo, come un genitore deve dimostrare che sta nel cuore delle cose, che c’è appunto, che ci sta dentro e che fa testimonianza di come le cose si affrontano, non fugge, non ne approfitta, è testimonianza di questo stare qui. Il padre deve tornare a dimostrare di esserci, di stare là, di interessarsi per davvero. Fino a quando, dopo avere dato il massimo di sé nel suo ruolo, potrà dire con Cristo sulla croce: “tutto è compiuto!”. Stare nel cuore delle cose è oggi l’unica paternità possibile. Lo vedo con i miei 8 figli, già i nipoti in questo sono più lontani, ma i miei figli, mi accorgo, non mi vedono come colui che ha provvisto per il loro sostentamento, l’agiatezza, l’educazione, i regali, il comportamento affettuoso che ho avuto, ma perché sono stato sempre per loro nel cuore delle cose, ci sono sempre stato, ero lì. San Giuseppe è stato eccezionale come figura storica e spirituale perché non è stato il tenore che era sul palco, fa la cabaletta e scompare. Lui era lì, dall’inizio alla fine, permanentemente. Nei prossimi venti o trent’anni ci sarà un rinnovamento ed una riproposizione del ruolo paterno di questo tipo, non di bassa levatura, ed allora potremmo sperare di recuperare una famiglia come quella portata avanti nel silenzio da san Giuseppe. Il ritorno della figura del padre non è un protagonismo ma esserci non da primo attore ma da chi è lì e ci vuole essere”.
Chi allora nella società d’oggi incarna pubblicamente bene, secondo Lei, la figura paterna ?
“Ci rendiamo conto che l’uomo più stimato, non amato, ma il più stimato del Paese è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non ha incarnato affatto, pur avendo 80 anni, la dimensione del nonno, ma quella proprio del padre serio, che sta lì. La gente non vuole protagonismi, non vuole personaggi vacui, che pensano solo a sé stessi, cerca proprio queste figure come appunto Napolitano”.

Presidente, quali sono e se ci sono figure paterne sul piano sociale e cattolico insieme, chi le viene in mente?
“Ettore Bernabei, un padre straordinario, a novant’anni lucidissimo, un esempio per tutti, ex direttore generale della Rai, un protagonista delle cose, non urla, calmo, serio, non dice parolacce. Il secondo protagonista è Alcide De Gasperi ed è esemplare da leggere, come le Lettere alla figlia suora, suor Lucia dell’Assunzione, un libro meraviglioso. Lettere straordinarie in cui quest’uomo che dirigeva il Governo, teneva testa ai comunisti, parla con la figlia che ha deciso di farsi suora, e si rivolge a lei con il tono assolutamente da padre ed è stato lui che l’ha accompagnata sulla porta del convento dell’Annunciazione. De Gasperi viveva da protagonista quel periodo, ed era uno dei più grandi protagonisti della nostra storia, la storia della ricostruzione del Paese, eppure così grande e poi viveva questo rapporto di grande tenerezza con la figlia. Non era un rapporto straziante, assolutamente, ma un rapporto in cui lui era chiarissimamente posseduto da se stesso. Aveva un dolore fortissimo ma lo sapeva controllare bene. Queste sono le due figure che io vedo esemplari nel loro ruolo di “padre”. Oggi faccio fatica a trovare nel clero figure paterne, perché hanno tutti caratteristiche diverse. L’ultimo più che “padre”ma fratello maggiore è stato per me Clemente Riva dal 1950 in poi.  Aveva la voce già del padre”.

Rispetto alle famiglie in crisi cosa può la comunità?
“Io ad esempio darei i sacramenti anche ai divorziati, perché altrimenti si sentono emarginati, allontanati dalla comunità ed invece devono continuare a farne parte integrante. Vabbe’ ha sbagliato, ma c’è la riconciliazione. Confessati, pentiti, fanno la comunione. è triste che vadano nel paesino vicino a farla di nascosto perché lì non sanno che è divorziato e non può prenderla o magari la ricevono di nascosto per non dare scandalo. è vero, si pecca ma il nostro rapporto con Dio è diverso. Io lo vedo nella mia chiesa di appartenenza, ci sono sempre quei sei o sette che non possono fare la comunione, questo li spinge magari ad allontanarsene nel tempo, diventa una colpevolizzazione nel senso che un errore religioso diventa un connotato pure sociale”.

Lei darebbe la comunione anche a quei mariti che abbandonano le mogli per donne decisamente più giovani?
“Mah sì… io guarderei piuttosto a restituire mitezza e bontà alla famiglia. Penso ai divorziati, separati, situazioni in cui se non diventa poi una vita da tribolati ci vuole tanta umanità affinché non diventi tutto vendetta, rancore, ricatti, vigliaccheria ed oggi le separazioni sono purtroppo questo”.

Il rapporto genitori-figli dalla sua analisi sociale...
“Spesso poco attenti, poco osservatori. Li senti dire “scoprire che mio figlio si droga” oppure “mia figlia è diventata anoressica” è stato una “bomba”! Ma come una “bomba”? E non te ne sei accorto fino ad oggi? E dov’eri? Possibile che in quanto genitore non sei stato capace di cogliere i primi campanelli di allarme? Il primo disagio che il sintomo iniziava a manifestare prima che il problema scoppiasse? Ecco, i genitori si rivelano con scarse antenne. Ed invece vanno drizzate bene. Non dico che i genitori devono avere comportamenti eroici nei confronti dei figli, ma che stiano bene in guardia, questo sì. Certe malattie hanno periodi di incubazione lunghi, ed includo lo sballo tra queste. Come non accorgersi ad esempio della depressione di un figlio? E poi quando si scopre il problema cosa si fa? Il neurologo, che cosa fa poi? Prescrive la pasticca! Ma non sarà la pasticca a curare tuo figlio! Ci devi pensare tu e molto prima ed in modo diverso. Manca un’antropologia del comportamento familiare nei genitori di oggi. Famiglie inoltre in cui i figli hanno il sopravvento nella guida familiare, la debolezza dei genitori si scopre spesso. Ma è lì che bisogna dare la propria testimonianza, è quello il momento per dimostrare che ci sei, che ci stai, che stai dentro a quella vita, accanto a tuo figlio”.

Noto che nel suo ufficio vi è un angelo molto bello, lei crede agli angeli?
“Quell’angelo non è lì per caso, dovrei spiegare perché è proprio messo lì alle mie spalle e non altrove, la storia che c’è dietro. Sì, credo agli angeli, perché credo che parte della nostra vita sia avvolta dal mistero. Gli angeli risvegliano spesso in noi delle cose”.

L’ultimo dato rilevato dal Censis che l’ha lasciata di stucco?
“Circa due milioni di giovani italiani di età compresa tra i 20 ed i 30 anni che non studiano né lavorano, impressionante un dato simile, vuol dire che vivono sulle spalle dei genitori o dei nonni ed è anche responsabilità di questi che non li scuotono. Dinanzi a certe non scelte di vita il rapporto con la famiglia va approfondito, è da lì che parte ogni problema del giovane”.  n

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