L’’esortazione apostolica Amoris laetitia è nata da lavori sinodali, cioè dall’impegno dei vescovi radunati in sinodo, fin dal 2013, quando si è notato un modo nuovo di procedere: un tema scelto dal Santo Padre sviluppato in due sinodi, con allegato un questionario. Con questo modo di lavorare insieme, la collegialità è diventata sinodalità.
Dal primo questionario è nato l’instrumentum laboris, discusso nella Assemblea straordinaria dei vescovi. Il segretario speciale per tutti e due i sinodi è stato monsignor Bruno Forte. Per volere del Papa, durante l’assemblea è stata adottata la lingua italiana: altra novità, in quanto nel passato si usava il latino. Nei circoli minori invece, si è parlata la lingua madre dei padri sinodali. L’instrumentum laboris è fatto di tre parti: le sfide, la vocazione, la missione della famiglia; ed è stato affidato ai lavori del secondo sinodo della famiglia.
Due Sinodi (2014 e 2015) voluti da Papa Francesco. La novità. Mai un Sinodo era stato preceduto da una consultazione di tutte le chiese del mondo. E qui si trattava di famiglia, matrimonio e sessualità, temi su cui al Concilio per decisione papale fu chiusa la discussione anche tra i vescovi. Dopo il Concilio il tema della famiglia ancora molte volte era stato affrontato, anche in un Sinodo dedicatogli e concluso con la “Familiaris Consortio” di San Giovanni Paolo II (1980). Tenendo conto di questo nel 2014 si poteva semplicemente rimandare al testo di San Giovanni Paolo II: conferma e avanti… Non è andata così…
Nell’ottobre 2018 i nostri vescovi celebreranno il loro Sinodo sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Al centro della loro riflessione e attenzione ci saranno dunque i giovani; la Chiesa si interrogherà su come accompagnarli a riconoscere e accogliere la loro chiamata all’amore e alla vita in pienezza.
Non manca certamente il riferimento a Maria santissima, accompagnatrice di questo percorso ecclesiale e modello per i giovani in discernimento. «Ciascun giovane può scoprire nella vita di Maria lo stile dell’ascolto, il coraggio della fede, la profondità del discernimento e la dedizione al servizio (cf. Lc 1, 39-45). Nei suoi occhi ogni giovane può riscoprire la bellezza del discernimento, nel suo cuore può sperimentare la tenerezza dell’intimità e il coraggio della testimonianza e della missione».
Il nome Giuseppe, già presente nella famiglia di Giacobbe, significa “colui che fa crescere”, colui che incrementa e da’ robustezza alla vita. Il nome di San Giuseppe come ogni anno è veleggiato nel quartiere Trionfale tentando i riscoprire non soltanto la festa religiosa ma recuperare tradizioni antiche di questo quartiere di Roma che, in altri tempi, si inondava di odori e fragranze delle frittelle e richiamava da tutta Roma attorno a “San Giuseppe frittellaro” quasi fosse un’anticipazione primaverile della festa de’ noantri che si celebra a Trastevere in occasione della festa della Madonna del Carmine.
L’emozione silenziosa del passaggio della statua ancora una volta si è ripetuta il 19 marzo scorso, quando dalla basilica del Trionfale, san Giuseppe è uscito per andare incontro alla gente, sempre tanta, crescente, numerosa. Cambiano i tempi ma non la fede nello Sposo di Maria e Patrono della Chiesa universale. Ai copriletti stesi ai balconi ed ai fiori si sono sostituiti i tantissimi telefonini, tablet, Ipad, che dalle finestre e dai marciapiedi passando il santo, cercavano lo scatto migliore. E non si immortala un momento se non per mostrarlo ad altri, come a dire: “vedete com’è stato bello?”.
Francesco dedica una Lettera al ricordo di santa Francesca Cabrini, pura padana, lombarda al 100% e nientemeno che protettrice degli immigrati anche da noi. Eccola: Francesca Saverio Cabrini, lombarda di Sant’Angelo Lodigiano, nata nel 1850, ultima di tredici figli di un piccolo agricoltore, Agostino, che tutti chiamavano “il cristianone”, per caso parente di un altro Agostino, De Pretis, che poi fu il primo presidente del Consiglio della Sinistra più anticlericale del secolo. La ragazza viene su vivace ed intelligente, studia sodo e mostra interesse ai racconti di viaggi.
L’amore e la cura per gli anziani, la venerazione per i genitori, una famiglia contadina dell’alto Mugello. L’attenzione per i poveri e per gli emarginati condivisa con La Pira, un impegno missionario senza confini. C’è molto del carisma guanelliano nella figura del card. Silvano Piovanelli, così come ci viene riproposta a pochi mesi dalla morte (9 luglio) nell’ultima intervista, contestualizzata nella biografia “Il parroco cardinale”, scritta da Marcello Mancini e Giovanni Pallanti per le Edizioni San Paolo con la prefazione del segretario mons. Luigi Innocenti. Che racconta cosa gli bisbigliò all’orecchio Papa Francesco il 21 febbraio 2014, giorno in cui aveva invitato Piovanelli per il suo novantesimo compleanno a concelebrare la Messa in Santa Marta: «Sei un uomo fortunato.
La vocazione sacerdotale e il suo essere prete per Bacciarini costituiscono la sorgente di tutta la sua ascesi spirituale. Il sacerdozio per Bacciarini fu l’unica ragione della vita: era conquistato dalla dimensione del servizio a Cristo a favore di un'umanità da salvare. L'Eucaristia, celebrata e consumata, per don Aurelio era la sintesi non solo dei misteri della vita di Cristo, ma era il suo modo di condividere l'esperienza di Gesù a Betlemme, sul monte Tabor, nel Cenacolo, al Getsemani, sul Golgota e nella tomba vuota del sepolcro visitato da Maria Maddalena al mattino di Pasqua.