Sino a qualche tempo fa il nome più diffuso in Italia, dopo quella di Maria era il nome di Giuseppe: l'uomo del silenzio faceva riecheggiare il suo nome nei più sperduti borghi d'Italia. In questi ultimi cent'anni la società ha subito grandi trasformazioni, ha sofferto distruzioni, morti, lutti, lacrime, ha sperimentato la bomba atomica, è andata sulla luna, ha riempito il cielo di satelliti. Nel secolo scorso con un ritmo di cinquant'anni, sono saliti alla cattedra di Pietro tre pontefici che nel battesimo avevano ricevuto il nome di Giuseppe: Giuseppe Sarto, San Pio X, Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII e Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. Tre uomini che hanno contribuito con uno stile pastorale diverso a rendere la Chiesa più evangelica. La scena politica, pur nella passionalità e acredine anticlericale, ha cooperato a liberare la Chiesa dalla pesantezza del potere temporale.
Abbiamo visto che questa pratica consiste nel meditare o contemplare per un’ora intera e continua la Passione del Signore, col desiderio di offrirgli amore e riparazione per le nostre infedeltà e tradimenti, e in particolare di quelle delle anime in special modo a lui consacrate. Non c’è un «sistema» particolare: si può o leggere e meditare il racconto della Passione di uno dei vangeli, in tutto o in parte, o pregare con i misteri dolorosi, o fare la via crucis, o anche stare in silenzio e effondere il proprio cuore dinanzi a Lui.
Abbiamo già visto, nei precedenti articoli, pubblicati su questa Rivista ormai diversi anni fa e che ora in qualche modo desideriamo riprendere, che quella del Cuore di Cristo non è una “devozione”, ma, più profondamente, una “spiritualità”, un modo di vivere l’intera esperienza cristiana attraverso quel simbolo così significativo costituito dal Cuore di Cristo. Abbiamo anche visto che tutto questo non si basa solamente su rivelazioni private, o “promesse”, che Dio è certamente libero di fare e ha effettivamente compiuto, attraverso santa Margherita Maria e altri santi, ma piuttosto sulla Scrittura stessa, che è la pienezza della Rivelazione, dalla quale attingono i mistici stessi, e che le loro parole non fanno che confermare.
«Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano». Con queste parole Papa Francesco terminava l’omelia della Santa Messa di apertura del Giubileo straordinario della Misericordia. La figura del buon samaritano ci è dunque additata come modello privilegiato in questo Anno Santo. Al cuore della parabola spicca, infatti, il verbo «ebbe compassione», un verbo che nella società violenta del nostro tempo sembra fuori uso; in realtà è il verbo più necessario da imparare a coniugare in tutti i suoi tempi e modi, come fece il buon Samaritano. La parabola nasce in risposta alla domanda che un dottore della legge rivolse a Gesù per metterlo alla prova: Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? E Gesù rispose con un’altra domanda: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Il dottore della legge rispose senza esitazione, citando esattamente il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (cf. Dt 6,5 e Lev 19,18). Tuttavia tale risposta lasciava aperto per lui il problema di interpretare nella concretezza delle situazioni chi fosse il prossimo.
In una visione volontaristica la vita è soprattutto opera dei nostri sforzi; le fragilità non possono trovare spazio, ma in questo modo non si notano più nemmeno le ricchezze e i differenti doni che costituiscono l’unicità preziosa di ciascuno. Caratteristica di questo approccio alla vita è di aver smarrito il senso della gratuità: il Signore ha cessato di essere il padrone della vigna, è diventato un collaboratore, al massimo il nostro “vicepresidente”. Per questo è bene che la crisi esploda e mandi in frantumi questo orgoglio possessivo. Il cardinale Daneels, arcivescovo di Bruxelles, confidava in proposito: «Quando torno a casa dopo una lunga giornata di lavoro, vado in cappella e prego. Dico al Signore: ‘Ecco, per oggi è finita. Adesso, siamo seri, questa diocesi è tua o mia?’ Il Signore dice: ‘Tu cosa ne pensi?’ E io rispondo: ‘Penso che sia tua’ ‘È vero, dice il Signore, è mia’. E allora dico: ‘Allora, Signore, tocca a te prendere la responsabilità della diocesi e dirigerla.
La crisi dell’età di mezzo rivendica un ritorno verso di sé, una presa di coscienza delle proprie fragilità di fondo, talvolta negate, o rimosse, o trasferite su altre cose, come il successo, l’attività, la professione, le scelte apostoliche, intellettuali, affettive. Questo momento di arresto è di per sé positivo, è un invito a fare verità e recuperare elementi finora disattesi della storia e del proprio essere; non per nulla la personalità di tipo grandioso, indicata in psicologia con il termine di narcisista, ha più possibilità di trarre beneficio da un lavoro di accompagnamento e conoscenza di sé dopo i 40 anni di età: «Nella crisi della mezza età non si tratta di trovare una soluzione al venir meno delle forze corporali e di mettere ordine a nuovi desideri e nostalgie che spesso irrompono in questa svolta della vita. Si tratta piuttosto di una più profonda crisi esistenziale, in cui viene posta la domanda sul senso globale del proprio essere: “Perché lavoro tanto? Perché rischio l’esaurimento senza trovare tempo per me?” La crisi di mezza età è per sua natura una crisi di senso» (Grün).
Il percorso di ogni uomo entra prima o poi «nel mezzo del cammino di nostra vita», una situazione di buio e mediocrità in cui le realtà a noi care vanno in crisi, trovandoci con sorpresa stanchi e sfiduciati. Anche le epoche storiche, le società e gli imperi conoscono crisi, decadenze e cadute. Questo periodo di difficoltà, di smarrimento, sembra costituire la modalità stessa della vita e della relazione con Dio; giunti a un certo punto, inaspettatamente, ci si trova persi, non si capisce più nulla, ci si trova smarriti senza forze, energie, motivazioni.
Con questa meditazione giungiamo alla conclusione del percorso che ci ha portati a rileggere mese dopo mese il testo conciliare della «Gaudium et Spes» cercando di trarne spunti di riflessione per vivere cristianamente la vita quotidiana. Verso la fine del documento si trova un invito che ci fa capire come proprio ora – nell’oggi di grazia che ogni mattino si rinnova – tutto debba iniziare. Dopo aver ampiamente parlato del dramma della guerra e dell’urgenza di trovare vie di pace, i Padri conciliari «in mezzo alle angosce del tempo presente» ripropongono con insistenza il messaggio dell’Apostolo: «“Ecco ora il tempo favorevole” per trasformare i cuori, “ecco ora i giorni della salvezza”» (GS 82; 2 Cor 6,1).
All’inizio della Costituzione conciliare Gaudium et Spes ci viene incontro l’immagine di un’umanità in cammino, in cui i discepoli di Cristo, pellegrini tra i pellegrini, avvertono l’urgenza di assumersi le angosce e le tristezze dei compagni di viaggio, soprattutto dei più poveri e deboli, per arrivare tutti insieme alla mèta: la casa del Padre nel regno della luce e della pace. Lungo il testo della Costituzione – come abbiamo potuto vedere nelle precedenti meditazioni – sono emerse le asprezze del cammino: la fatica di riconoscersi tutti fratelli, perché figli dell’unico Padre, dotati della stessa dignità. Inoltre la tentazione di rivendicare per sé una libertà assoluta che non rispetta i diritti degli altri; l’incapacità di vivere in comunione, la tendenza a fare del lavoro non un servizio in vista del bene comune, ma un mezzo di potere per arricchirsi e dominare… Di volta in volta sono anche emerse indicazioni per una continua conversione, affinché, superando gli ostacoli, il cammino possa procedere, sia pur faticosamente, nella comunione e nella pace.
L’atmosfera del mese di novembre si presta alla meditazione sul tema della morte e della vita eterna, cui la costituzione conciliare Gaudium et Spes – che ci ha accompagnati di mese in mese – dedica esplicitamente un paragrafo. Esso è non a caso collocato subito dopo il tema della libertà, quasi a voler dire: «O uomo, la tua dignità sta nella tua libertà di creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. Mostrati degno della tua dignità! Usa bene della tua libertà». Quando la si usa bene? Quando, nelle scelte, non ci si limita ad un tornaconto immediato, non ci si ferma a ciò che piace o non piace, a ciò che è comodo o scomodo, secondo criteri e misure ristretti agli interessi individuali e alla vita presente, ma si considera il fine ultimo dell’esistenza e il bene di tutti.